Andy Warhol Foundation vs Goldsmith: quale lezione

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Goldsmith vs Warhol: prologo

Lynn Goldsmith è una fotografa americana nota per i suoi ritratti di celebrities, in particolare di musicisti rock and roll. Nel 1981, Goldsmith realizzò nel suo studio 23 ritratti fotografici del musicista Prince e nel 1984 concesse una licenza d’uso alla rivista Vanity Fair per la riproduzione di uno di quei ritratti, con l’intesa che sarebbe stata utilizzata come immagine di riferimento da parte di un artista in un articolo dedicato a Prince. La licenza prevedeva che fosse precisata l’attribuzione della fotografia a Goldsmith. Vanity Fair non rivelò a Goldsmith che l’artista a cui era stata commissionata l’opera fosse Andy Warhol.

L’artista creò autonomamente una serie di opere, note come Prince Series, sulla base della fotografia di Goldsmith oggetto della licenza a Vanity Fair. Alla morte di Warhol (1987) il suo patrimonio, incluse la Prince Sries, fu devoluto alla Andy Warhol Foundation. Nel 2016, poco dopo l’improvvisa morte di Prince, l’editore Condé Nast chiese ed ottenne dalla Fondazione una licenza d’uso commerciale per una delle Prince Series e la pubblicò, senza dare alcun credito a Goldsmith.

La fotografa, ignara del fatto che Warhol avesse realizzato la Prince Series, contestò la violazione del proprio diritto d’autore sostenendo che le stesse fossero sostanzialmente simili ad una propria fotografia. Nel 2017, la Fondazione avviò in via preventiva un’azione davanti al giudice distrettuale del Second Circuit (New York) al fine di far accertare che la Prince Series non aveva violato il diritto d’autore di Goldsmith ovvero, in alternativa, che la stessa fosse protetta da fair use.

Nel 2019 il giudice distrettuale accertò la sussistenza di un fair use a favore della Fondazione. Il 26 marzo 2021, la Corte d’Appello del Second Circuit ha annullato la decisione di primo grado con un’articolata decisione nella quale ha ritenuto che la Prince Series abbia violato il diritto d’autore della fotografa.

Giuseppe Calabi

Non vi è alcun dubbio che l’immagine di Prince in ciascuna delle opere costituenti la Prince Series sia simile a quelle rappresentata nella fotografia di Goldsmith. Il giudice distrettuale di primo grado ha ritenuto tuttavia che (i) le opere di Warhol fossero “trasformative”, rispetto alla immagine “sorgente”, ossia la fotografia di Goldsmith, in quanto mentre quest’ultima rappresenta il musicista come un uomo inquieto e vulnerabile, le opere appartenenti alla Prince Series lo raffigurano come un’icona e con una dimensione superiore a quella reale; (ii) la natura trasformativa dell’opera di Warhol deve prevalere rispetto al fatto che la fotografia di Goldsmith sia un’opera protetta e non pubblicata; (iii) ogni elemento “creativo” che caratterizza la fotografia, ad esempio la luce, la profondità di campo, le ombre, è stato rimosso nell’opera di Warhol ed, infine (iv) la Prince Series non può influenzare negativamente il mercato di riferimento della fotografia di Goldsmith.

Questi in sintesi, i quattro fattori, non esclusivi, che il giudice di primo grado ha ritenuto – in ossequio all’articolo 17 U.S.C. § 107 – possano far concludere che la Prince Series rappresenti un fair use, ossia un utilizzo legittimo e giustificato della fotografia di Goldsmith.

La dottrina del fair use è stata ampiamente elaborata dai giudici americani, i quali, seguendo il sentiero tracciato dalla nota sentenza della Corte Suprema Campbell (510 U.S. 569 (1994) hanno precisato che l’indagine sul fair use debba essere sempre contestualizzata considerando ogni aspetto rilevante (open-ended): in particolare, nel valutare se una nuova opera abbia “trasformato” un’altra occorre verificare se il nuovo lavoro costituisca una mera “sostituzione” del precedente ovvero aggiunga qualcosa di nuovo, con un ulteriore scopo o un diverso carattere, modificando il primo con una nuova espressione, significato o messaggio. Questo normalmente avviene se la nuova opera costituisca una critica o un commento, ovvero ancora abbia uno scopo di ricerca, di insegnamento oppure, non da ultimo, di parodia.

Nel caso in esame, il giudice d’appello ha ritenuto che non fosse sufficiente per qualificare come “trasformativa” l’opera di Warhol che lo stesso avesse inteso rappresentare Prince in modo iconico eliminando qualsiasi fragilità dall’espressione catturata dalla fotografa. Secondo la corte d’appello, inoltre, il giudice non si dovrebbe trasformare in un critico d’arte e cercare di esplorare il significato dell’opera o l’intenzione dell’artista, in quanto così facendo introdurrebbe nel giudizio una componente intrinsecamente soggettiva: d’altronde, un eccessiva inclinazione verso il carattere trasformativo di una nuova opera che abbia attinto da un’opera originaria può pregiudicare la tutela del diritto d’autore della prima opera.

Il rigore imposto al giudice deve essere maggiore: deve valutare se l’utilizzo da parte dell’opera “secondaria” dell’opera originaria” sia al servizio di uno scopo e carattere artistico “fondamentalmente differente e nuovo”, tale da distanziarsi dalla materia (“raw material”) utilizzata per crearla. Da questo punto di vista, la corte d’appello ha ritenuto che Warhol non abbia “trasformato” la fotografia di Goldsmith, avendo mantenuto gli elementi essenziali della stessa, senza significativamente alterarli o aggiungerne altri. La sentenza ha citato, tra gli altri, il celebre caso Cariou, avente ad oggetto la serie di opere dell’artista Richard Prince denominate “Canal zone”, le quali erano state realizzate sulla base di immagini di Rasta realizzate dal fotografo francese Cariou.

In quel caso, lo stesso tribunale aveva ritenuto che l’artista, per la maggior parte delle opere in causa, avesse aggiunto materiale idoneo a trasformare le corrispondenti fotografie in opere completamente diverse. La corte d’appello ha inoltre precisato che una diversa conclusione non potesse raggiungersi in base al rilievo che le opere di Warhol sono inconfondibili, in quanto questo argomento porrebbe gli artisti affermati con una propria riconoscibile cifra stilistica in una zona di immunità rispetto alla violazione del diritto d’autore.

La corte d’appello ha infine negato che la Prince Series potesse essere tutelata in base agli altri fattori idonei a qualificare come fair use l’utilizzo di un’opera protetta dal diritto d’autore ed, in particolare, l’interferenza dell’opera secondaria sul mercato relativo all’opera primaria: pur essendo il mercato primario delle opere di Warhol non sovrapponibile a quello delle fotografie di Goldsmith, le licenze delle rispettive opere che hanno come comune denominatore l’immagine di Prince per riproduzioni su riviste o media che si interessino al musicista possono generare interferenze negative ai danni della fotografia originaria.

Conclusione: (a) la Prince Series è “sostanzialmente simile” alla fotografia di Goldsmith, come potrebbe rilevare un osservatore comune ponendo a confronto le rispettive opere; (b) avendo Warhol copiato la fotografia di Goldsmith e non potendo avvalersi della protezione accordata dal fair use, la Prince Series ha violato i diritto d’autore di Goldsmith.

In Italia, un celebre caso deciso dal Tribunale di Milano nel 2011 ha ritenuto che opere dell’artista John Baldessari esposte presso gli spazi della Fondazione Prada non costituissero un plagio di due sculture di Alberto Giacometti. In quel caso il Tribunale ritenne che le opere di Baldessari fossero una reintepretazione delle opere di Giacometti al fine di tradurle “in un’espressione artistica diversa, di per sé creativa e idonea a trasmettere un messaggio proprio”. Non a caso, la sentenza milanese cita la giurisprudenza americana in tema di fair use, anche per supplire ad una minore disponibilità di precedenti italiani in tema di plagio di opere d’arte.

Il conflitto tra la Fondazione Andy Warhol e Goldsmith tuttavia non è ancora concluso e bisogna aspettare le prossime puntate.

Sharon Hecker

Sono d’accordo con il giudice d’appello che i giudici e i tribunali non dovrebbero essere tenuti a prendere decisioni storico-artistiche come, ad esempio, quella di valutare in quale modo l’immagine di Warhol fosse storicamente “trasformativa” rispetto alla fotografia di Prince scattata da Goldsmith. Per me la questione si riduce al fatto che Warhol ha usato il lavoro di qualcun altro senza accreditarlo e sorge spontanea la domanda sul motivo per cui queste situazioni siano frequenti in ambito artistico.

Questa non è la prima volta che Andy Warhol è stato censurato per non aver riconosciuto di aver utilizzato opere d’arte altrui: tra i vari casi, un’altra fotografa, Patricia Caulfield, ha citato Warhol per aver usato le sue fotografie di fiori per i suoi famosi Fiori serigrafati senza prima chiederle il permesso o darle credito. L’attuale caso Warhol è ironico, perché, come nota l’avvocato David Apatoff, “Andy Warhol ha preso in prestito spudoratamente immagini da altri, ma la Andy Warhol Foundation persegue aggressivamente chiunque cerchi di copiare le copie di Warhol”.

Quali standard o pratiche condivise sono attualmente disponibili per accreditare correttamente l’uso del lavoro di un altro? Nel mondo occidentale in molti ambiti abbiamo convenzioni consolidate per un corretto riconoscimento del lavoro altrui. I libri iniziano o finiscono con i riconoscimenti, i film iniziano e finiscono con una lunga lista di crediti, in modo che ciò che è originale sia accuratamente distinto da ciò che è adattato o derivato.

Gli storici dell’arte seri sono educati rispetto al principio del riconoscimento della provenienza delle loro idee. Siamo addestrati a controllare il nostro lavoro per idee prese in prestito e non riconosciute. Abbiamo pratiche accettate e condivise come le note a piè di pagina, le virgolette e le bibliografie. Un uso non riconosciuto del lavoro di qualcun altro è chiamato “plagio”.

Un plagiario, dal latino plagiarius (“rapitore, seduttore, saccheggiatore”), è definito un “ladro letterario”. Lo stesso standard non dovrebbe essere applicato alle arti visive? Perché nell’arte lo permettiamo, chiamando pratiche simili “prendere in prestito”, “appropriarsi”, “riutilizzare”, “trasformare”, “riproporre”, “ricontestualizzare” o “adattare”?

Cosa c’è di sbagliato nell’uso non riconosciuto come quello di Warhol? In fondo, una tale pratica tratta con disprezzo non solo il lavoro di un altro artista, ma anche le scelte e l’investimento di energia creativa da parte di una persona precedente alla quale l’opera è stata presa senza permesso e senza dare credito. Nel caso di Warhol vs. Goldsmith, non c’è stato alcun tentativo da parte di Warhol di investire del tempo per conoscere la persona o i processi dietro il lavoro che ha copiato. Non ha quindi creato alcuna relazione (reale o immaginaria) con Goldsmith come fotografa, né con il suo lavoro.

Durante il processo Goldsmith ha raccontato in dettaglio di aver creato le sue fotografie in un modo diverso da singoli scatti spontanei e casuali. Le sue foto non erano mai state considerate da lei come delle istantanee, ma piuttosto una serie artistica. Prima dell’arrivo di Prince nel suo studio, ha organizzato attentamente l’illuminazione per evidenziare alcune caratteristiche: nelle sue parole, voleva far risaltare la “struttura ossea cesellata” del can- tante. Goldsmith ha anche truccato il viso di Prince con l’ombretto e il lucidalabbra.

La ragione per questa decisione era sia fisica che psicologica: Goldsmith voleva “accentuare la sensualità” di Prince e, nell’atto di toccare il suo viso ha tentato di costruire una relazione diretta e tattile con lui, perché Prince si era manifestato molto a disagio a farsi fotografare. L’intento di Goldsmith, quindi, era quello di lavorare con il cantante per cercare di superare le sue paure e ansie.

Inoltre, Goldsmith ha preso numerose decisioni tecniche e artistiche: ha scelto con cura la macchina fotografica da usare – una Nikon 35mm – e due obiettivi diversi – lenti da 85 e 105mm. Probabilmente ha anche fatto delle ulteriori scelte nella fase successiva di sviluppo delle foto. Tutte queste decisioni artistiche, così come il delicato rapporto umano costruito tra lei e Prince, fanno parte dell’immagine finale creata. Goldsmith ha raccontato che Prince trovò l’intera esperienza così straziante che se ne andò a metà delle riprese.

Le azioni di Warhol di non dare credito alla fotografa hanno essenzialmente privato lei e la sua immagine finale di tutta questa attenta preparazione, del tempo che Goldsmith aveva investito, della sua profonda esperienza come fotografa e della fragilità del rapporto momentaneo che era riuscita a creare con il cantante. Se è vero, come ha affermato il primo giudice, che Warhol è riuscito a “trasformare” l’immagine di Prince da una figura fragile in un’icona, allora nel non dare credito Warhol ha rapito l’es- senza espressiva e la potenza di una fotografia accuratamente creata attraverso un ponte poetico, momentaneo, tra artista e soggetto.

In fondo, le azioni di Warhol sono sorprendenti perché non mancano agli artisti degli strumenti per riconoscere il lavoro degli altri. Spesso troviamo artisti cauti, corretti e rispettosi nel dare credito agli altri attraverso i titoli che scelgono per loro opere. Studio dal Ritratto di Velazquez del Papa Innocenzo X di Francis Bacon, o Für Andrea Emo di Anselm Kiefer, sono due casi che dimostrano che non è impossibile fare un riconoscimento adeguato. Eppure, senza standard di riconoscimento nelle arti visive, queste rimangono eccezioni.

Chiudo con una domanda propositiva agli artisti: quali buone pratiche condivise potreste sviluppare per il riconoscimento dei lavori degli altri che allo stesso tempo vi aiutino a prevenire aspre, pesanti e costose dispute legali?

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