Circa 100 miliardi di euro di fatturato, pari al 4% del Prodotto interno lordo, e quasi 60mila imprese attive. Sono solo alcuni dei numeri che contribuiscono ad abbozzare uno dei comparti più significativi e apprezzati del Made in Italy, quello della moda, secondo quanto riportato dalle analisi 2023 della Camera Nazionale della Moda Italiana. Un’industria che ha creato delle vere e proprie icone: basti pensare che lo scorso anno ben 8 dei 30 marchi italiani più importanti al mondo afferivano proprio al settore moda, per un brand value complessivo di oltre 53 miliardi di euro, stando a quanto evidenziato dalla società di consulenza Kantar.
Numeri certo rilevanti, ma capaci di riflettere solo la trama di un ordito dal significato ben più profondo per il nostro paese, confezionato nel corso di secoli di storia e intrecciato a cultura, tradizione, artigianalità e memoria (e persino scienza). Una memoria che oggi è tutelata anche dai 385 complessi archivistici aderenti al Portale degli archivi della moda del Novecento, piattaforma nata nel 2011 per avvicinare in modo semplice un pubblico non solo specialistico alle fonti del patrimonio archivistico, bibliografico, iconografico e audiovisivo relativo alla moda italiana.
Un ‘heritage’ che affronta oggi sfide complesse: di queste e altri temi parliamo con Sara Braga, art advisor di Open Care, società di servizi integrati per l’arte che agli archivi dedica speciale attenzione realizzando progetti di inventariazione, valutazione, valorizzazione e conservazione su misura, a conclusione dell’evento “Moda e memoria: gli archivi come fonte di ispirazione e innovazione”, tenutosi lo scorso 25 novembre presso la sede milanese di via Piranesi, 10. Organizzata in collaborazione con lo Studio Lombard DCA, nel corso della serata è stato presentato l’ultima uscita della rivista AES, dedicato proprio agli archivi di moda, nel quale hanno contribuito gli archivi di Franco Albini, della Fondazione Roberto Capucci, di Colmar, della Fondazione Micol Fontana, di Germana Marucelli e di Missoni.
Qual è la sfida principale fronteggiata oggi dagli archivi di moda?
“Attribuire un valore all’eredità storica. Si tratta di un tema sempre più centrale a fini assicurativi, sia patrimoniali, ad esempio in processi di fusione e acquisizione (in cui l’archivio storico diventa delicato oggetto di trattativa). Un’esigenza pratica, questa, che si affianca sempre più agli sforzi di tutela e gestione della memoria storica da parte delle imprese”.
Come si valorizza economicamente un archivio di moda?
“In primis è necessario tenere conto della natura stessa dell’archivio di moda, in quanto il valutatore incaricato potrà trovarsi di fronte a tipologie di beni diverse e che corrispondono alle differenti fasi della progettazione e produzione di capi o accessori. Tra questi, ad esempio, si trovano fotografie, immagini, pubblicità, video, rassegne stampa, tessuti, disegni, look book, prodotti, progetti speciali e pezzi unici. Oltre ovviamente a tutto ciò che afferisce alla parte amministrativa, documentale e storica, legata alla nascita del marchio e alle vicende dei fondatori. E se nella valutazione di altri beni, come ad esempio un’opera d’arte, l’esperto può seguire alcune linee guida generali, per gli archivi di moda nella maggior parte dei casi è necessario stabilire un approccio custom made, proprio come se si trattasse di un abito realizzato su specifica richiesta di un committente esigente”.
Esistono tuttavia delle linee guida cui fare affidamento, volendo?
“Non ancora, e per questo nasce il paradosso: pur rendendosi spesso imprescindibile l’ideazione di nuove soluzioni che omaggino l’unicità di ogni archivio di moda, la mancanza di linee guida condivise a livello nazionale e ministeriale complica la valutazione economica dei beni presenti. Negli ultimi anni Open Care sta lavorando per codificare un metodo di valutazione degli archivi aziendali (che possa quindi essere applicato anche agli archivi di moda) che si ispiri ai principi internazionali di valutazione comunemente applicati e che, mettendo a sistema diversi indicatori di valore, li confronti e li restituisca in una adeguata sintesi valutativa”.
Come si procede, operativamente, nel valutare un archivio di moda?
“Il primo step ai fini della valutazione è necessariamente la definizione del perimetro dell’incarico, cui segue l’analisi dei beni compresi in tale perimetro, che potranno essere considerati unitariamente o per nuclei. Se la moda è sempre più avvicinata all’arte e i suoi esponenti ad artisti, alcuni prodotti non potranno che essere considerati alla stregua di beni con valore artistico e quindi oggetto di un certo interesse collezionistico. Da qui il tentativo di individuare e selezionare quegli elementi o cluster presenti nell’archivio che, per particolari caratteristiche esecutive e per nostra sensibilità, possono essere paragonati ad analoghi beni scambiati sul mercato specialistico di opere d’arte o di design (potrebbero essere fotografie, bozzetti, schizzi ecc.…). A questi elementi o cluster potrà quindi essere attribuito un valore che si desume dal confronto con gli scambi commerciali di elementi analoghi”.
E per tutto ciò che invece non riscuote l’interesse del mercato?
“In questi casi è possibile utilizzare un valore parametrico calibrato a seconda di fattori come la completezza delle serie, lo stato di conservazione, il periodo storico, il condizionamento, la rilevanza per la ricerca storica e la rarità e pregio degli esemplari. In altri casi, tuttavia, tutto ciò non è sufficiente a determinare il valore finale complessivo dell’archivio. Bisognerà quindi integrare le precedenti metodologie all’analisi del valore d’uso, riferibile alle risorse impiegate per la costituzione e la gestione dell’archivio, oltre che alla sua fruibilità. Potremmo quindi ritrovarci a considerare anche le evidenze dei costi sostenuti per l’organizzazione e la realizzazione dell’archivio poiché un migliore ordinamento, digitalizzazione e fruibilità incidono in maniera direttamente proporzionale sul suo valore finale”.
Un archivio d’impresa è anche custode di saper fare, artigianalità e a volte vera e propria scienza. È possibile attribuire un valore tutto ciò?
“Sì, e negli archivi di moda questo accade specie quando sono coinvolti brevetti e marchi: in questi casi si parla di ‘multidimensionalità del valore’. Ecco quindi che accanto al valore dei beni tangibili si deve considerare quel valore intangibile proprio dei frutti dell’ingegno umano, per cui devono essere valutati i complessi aspetti relativi ai diritti di proprietà intellettuale, legati a doppio filo alla sempre più decisa affermazione della valenza artistica delle creazioni dei couturier. Si tratta di un aspetto che necessità l’analisi di professionisti specializzati con cui è importante lavorare in sinergia”.
Un esempio, fra tutti, di archivio di moda che ha rappresentato una sfida per Open Care?
“Sicuramente l’Archivio Colmar, che stiamo facendo nascere insieme ai referenti interni dell’azienda. Un progetto di questo tipo dura anni e prevede la pianificazione di tutte le fasi di creazione dell’archivio, tra cui la mappatura dei beni, l’organizzazione di nuovi spazi idonei alla conservazione, la digitalizzazione, la scelta di una piattaforma di gestione e metadatazione, e solo in conclusione la valutazione vera e propria. Si tratta di uno dei compiti più sfidanti in questo ambito, ma che alla fine ci rende più orgogliosi”.
In copertina: 959 atelier | Credits Giulio Coltellacci | Courtesy Fondazione Roberto Capucci