Con due recenti massime, la Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano ha delineato alcuni importanti principi in materia di circolazione delle partecipazioni sociali.
La prima massima (n. 201 del 5 luglio 2022), nel sancire la legittimità delle clausole statutarie di s.r.l. e di s.p.a. che vietano il trasferimento parziale delle partecipazioni o delle azioni del socio alienante – legittimità fondata, con ampio e convincente percorso argomentativo, per le prime sul dettato dell’art. 2469, comma 2, c.c., che contempla espressamente la possibilità che “l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni” (totale e, quindi, a maggior ragione parziale) e, per le seconde, sulla considerazione che il divieto di trasferimento di cui all’art. 2355-bis c.c., con il relativo limite temporale ivi previsto, sarebbe riferibile esclusivamente all’ipotesi di intrasferibilità assoluta delle azioni – evidenzia come l’introduzione delle stesse mediante modifica statutaria assunta nel corso della vita della società assuma risvolti diversi, a seconda del tipo societario.
Nel caso della società per azioni, al socio che non abbia concorso alla relativa delibera spetterebbe il diritto di recesso, in quanto – salva espressa previsione statutaria di segno contrario – il divieto rientra nella nozione di “vincolo alla circolazione dei titoli azionari”, ai sensi dell’art. 2437, comma 2, lett. b) c.c.
Il diritto di recesso non competerebbe invece, di regola, al socio di s.r.l., non vertendosi in alcuno dei casi previsti dall’art. 2473 c.c., né sussistendo “intrasferibilità” ai sensi dell’art. 2469, comma 2, c.c. (essendo il recesso consentito unicamente nelle ipotesi in cui il socio rischi di rimanere “prigioniero”: lock-up assoluto, diniego del mero gradimento, sostanziale impedimento al trasferimento mortis causa della quota).
Va tuttavia sottolineato come la previsione di un diritto di recesso statutario ad hoc possa, in tali casi, risultare comunque opportuna, nella prospettiva di tutelare la posizione del socio dissenziente rispetto ad una rilevante compressione dei propri diritti economico-patrimoniali (chi intendesse liquidare parte della propria partecipazione si troverebbe impossibilitato a farlo, essendo posto di fronte all’alternativa tra mantenerla per intero oppure dismetterla integralmente).
La massima evidenzia, inoltre, un possibile utilizzo della clausola di particolare interesse, ove essa non preveda soltanto l’impossibilità di trasferimento parziale della partecipazione, ma impedisca altresì l’alienazione della propria (intera) partecipazione a una pluralità di soggetti: tale previsione – anch’essa ammissibile e soggetta ai medesimi limiti sopra indicati sul piano della spettanza del diritto di recesso – potrebbe infatti risultare utile al fine di evitare un eccessivo frazionamento delle partecipazioni sociali (esigenza spesso particolarmente sentita, specialmente nelle società familiari o comunque a ristretta partecipazione).
La seconda massima (n. 202 del 5 luglio 2022) sancisce, invece, la legittimità delle clausole statutarie di s.p.a. e di s.r.l. che impongono un “tetto minimo” di possesso delle azioni o delle partecipazioni sociali. Esse, tuttavia, assumono connotati diversi a seconda di come siano strutturate, potendo essere configurate tanto come limiti alla circolazione delle partecipazioni (rendendo il trasferimento inefficace nei confronti della società in tutti i casi in cui, per effetto del trasferimento, l’acquirente non consegua il possesso minimo, ovvero il venditore lo perda), quanto come regole che condizionano la legittimazione all’esercizio di parte dei diritti sociali alla titolarità di un floor di azioni o di una quota “minima” di partecipazione.
Se sotto il primo profilo la clausola non pone particolari problematiche, essendo previsti in più casi dall’ordinamento requisiti di possesso minimo di partecipazioni, con natura e finalità tra loro diverse (ad es. con riferimento alle banche popolari o di credito cooperativo, o nelle società a partecipazione mista pubblico-privata), la seconda potrebbe presentare profili di criticità, nella misura in cui condiziona al conseguimento e mantenimento del possesso minimo la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali (quando non anche la stessa assunzione dello status socii).
A ben vedere, infatti, non pare generalmente ammissibile subordinare o far venir meno lo status socii nei confronti di quei soggetti che hanno sottoscritto o acquistato una partecipazione sociale che – sin dall’origine o anche successivamente – non rispetti il “tetto minimo” stabilito dallo statuto per il possesso delle azioni o quote. Ci si troverebbe, infatti, nella condizione di dover giustificare l’esistenza di una o più partecipazioni sociali che non consentono l’esercizio di alcun diritto, ponendo pertanto un serio problema di giustificazione causale e di compatibilità con la disciplina societaria inderogabile.
La Commissione giunge quindi alla conclusione che la clausola statutaria del “tetto minimo” al possesso di azioni o quote possa essere configurata come “requisito per la legittimazione dei diritti sociali”, ma possa avere ad oggetto solo una parte di questi ultimi e, in particolare, solamente quelli che siano disponibili dall’autonomia statutaria (valutata la disciplina propria di ciascun tipo sociale e gli effetti complessivi che la clausola produrrebbe in ordine all’insieme dei diritti spettanti alle singole partecipazioni sociali).
Ad esempio, sarà derogabile il diritto di voto (nella misura in cui la disciplina normativa e/o statutaria consenta e preveda l’esistenza di partecipazioni prive di diritto di voto), ma non sembra ammissibile ad esempio, nelle s.r.l., la compromissione del diritto di informativa e controllo ai sensi dell’art. 2476 c.c.
Quanto alla sussistenza del diritto di recesso, la Commissione evidenzia come l’introduzione, la modifica o l’eliminazione a maggioranza delle clausole di “tetto minimo” al possesso di quote di s.r.l. non dia luogo ad alcuna causa legale di recesso, salvo che lo statuto disponga diversamente; mentre, nelle s.p.a., essa darebbe luogo a una causa di recesso legale ma derogabile, ai sensi dell’art. 2437, comma 2, lett. b), c.c. (al pari di quanto sopra visto nella massima 201), a meno che la clausola sia stata declinata come regola che subordina la legittimazione all’esercizio di parte dei diritti sociali al conseguimento o al mantenimento del possesso minimo (e ciò trattandosi di una “modifica dei diritti di voto o di partecipazione” ai sensi dell’art. 2437, comma 1, lettera g, c.c.), nel qual caso il diritto di recesso sarà inevitabilmente configurabile.
Ad avviso della Commissione è in ogni caso opportuno, in caso di introduzione nello statuto di tali clausole, effettuare un coordinamento con le regole in tema di trasferimento mortis causa della partecipazione e prevedere, se possibile, meccanismi di riscatto o di esclusione.
Qualora, invece, la clausola sia configurata quale requisito di legittimazione all’esercizio di alcuni diritti sociali, viene evidenziato come, allorché uno o più soci si trovino, nel momento di introduzione della clausola, al di sotto del “tetto minimo”, la delibera dovrà essere adottata con il voto favorevole di tali soci, “poiché si incide non solo sul profilo organizzativo della società, ma si introducono limitazioni incidenti esclusivamente sulla posizione di alcuni soci, a differenza di altri, in violazione del principio di parità di trattamento”.