Nel corso di un convegno di Step Lugano, esperti di trust, patrimoni e successioni hanno esaminato le implicazioni della gestione dei beni digitali, una nuova asset class di cui tenere conto
Le sfide della successione dei patrimoni digitali, per gestire i quali i trust devono ampliare le proprie competenze giuridiche, fiscali e informatiche
Blockchain è un termine alla moda, ma ancora non perfettamente conosciuto da tutti e di cui il diritto svizzero si è già occupato in maniera più ampia di altri paesi (in Canton Ticino è già stato lanciato un progetto pilota per accettare il pagamento in bitcoin). Per molti, blockchain vuol dire solo bitcoin o moneta elettronica utilizzata da riciclatori. “Ma pensare alle criptovalute solo come a qualcosa di volatile non è più adeguato ai tempi in cui viviamo”, hanno sottolineato alcuni relatori, ricordando quello che è successo con il crollo dei risparmi bancari in Paesi, come l’Argentina.
Alla base della tecnologia blockchain vi è un registro distribuito nel mondo, sincronizzato in diversi nodi. Viene considerato sicuro, immutabile e verificabile. Non esiste un’autorità centrale che lo regolamenti ma è un protocollo informatico che controlla la piattaforma. È il regno degli algoritmi ma l’elemento umano ha un suo peso in questo sistema, ad esempio per quanto riguarda il possesso delle chiavi private per accedere a tali asset digitali o l’identificazione dei soggetti coinvolti.
Per quanto riguarda la terminologia, i coin sono gettoni nativi della blockchain interessata e in genere non incorporano diritti verso l’emittente (valuta virtuale in senso proprio, come i bitcoin appunto), mentre i token sono gettoni emessi su una blockchain terza (per es. Ethereum) e in genere incorporano diritti in favore del titolare del token a carico dell’emittente, come il diritto al dividendo, il diritto di voto, il diritto al pagamento di royalty ecc. Il token/coin può essere programmato in uno smart contract per eseguire autonomamente un’azione al verificarsi di situazioni identificate dai cosiddetti oracoli, con evidenti vantaggi in termini di velocità ed efficienza del business.
Alcune società hanno già previsto nello statuto la possibilità di tokenizare le proprie azioni (cioè non più cartacee ma solo digitali) in modo da automatizzare tutta la governance (esercizio del voto in assemblee, aumenti di capitale) o raccogliere capitale nei mercati decentrati (in pratica delle Borse valori gestite solo da algoritmi e non più da persone).
Il sistema blockchain offre inoltre grandi potenzialità anche nella supply chain con riduzione dei tempi per lo scambio delle lettere di credito e contrasto alla contraffazione delle merci, grazie alla rapidità delle verifiche digitali. Altri esempi sono la gamification dell’uso dei token o i fashion toke con l’uso di Nft (non-fungible token) con l’acquisto di prodotti che possono essere utilizzati anche (o solo) in mondi virtuali, come nel sempre più discusso Metaverso o altre realtà aumentate.
Qual è quindi il vantaggio di un token per il pagamento (bitcoin, stable coins, utility token…), non così diverso da una delle app che siamo abituati a scaricare da uno smartphone?
Innanzitutto il risparmio: le app presenti sugli store Apple o Android pagano commissioni del 30% circa. Le critptovalute, sostengono gli esperti, sono strumenti di pagamento idonei ai servizi finanziari e c’è chi immagina che, in un prossimo futuro, arriveranno a soppiantare le transazioni finanziarie con modalità Sepa o Swift.
Il crescente rilievo degli asset digitali ha portato a studiare anche le modalità per la successione di questi beni: di fatto una nuova asset class che presenta sfide pratiche ancor prima che giuridiche per il trasferimento mortis causa. Non esiste una definizione univoca di asset digitale, ma si può dire che lo sia qualsiasi oggetto con un valore (anche solo affettivo) e che esista solo in maniera virtuale come una criptovaluta, un account email, una fotografia digitale… Insomma qualsiasi bene immateriale e rappresentabile con una sequenza di bit.
Il patrimonio digitale di un individuo può essere composto da beni digitali con contenuto patrimoniale o meno e da beni assistiti da un diritto esclusivo e assoluto di proprietà di un titolare (per es. beni digitali compravenduti attraverso siti web o piattaforme dedicate) o meno.
Tra le principali difficoltà in relazione alla successione di un patrimonio digitale vi è la difficoltà di identificazione e il recupero delle credenziali di accesso (tipicamente Id e password) a tali beni virtuali. Diverse le possibilità esistenti per effettuare il trasferimento di questi beni digitali (testamento, mandato post mortem exequendum, legato di password, esecutore testamentario…) ma nessuna perfettamente al riparo da problemi giuridici.
Un vantaggio immediato è legato al fatto che, affidando per atto inter vivos la custodia dei digital asset (crypto in particolare) a un trustee professionale, si risolve il problema legato alla consegna delle credenziali (Id / password /chiave privata) che affligge le devoluzioni mortis causa.
Risulta evidente che questa nuova asset class richiede, per essere ben amministrata, un expertise multidisciplinare. Anche per questa ragione può risultare utile veicolare il passaggio generazionale di digital asset per il tramite di un trust che abbia quale trustee un soggetto professionale che racchiuda al proprio interno competenze professionali variegate (giuridiche, fiscali, informatiche). E c’è anche chi immagina smart trust, cioè uno scenario in cui ci sia uno smart contract che in automatico svolga la funzione di trustee.