Le mani sono quelle di Wallace Chan (Fuzhou, Cina, 1956), intagliatore di gemme di fama internazionale. Le cicatrici sono il segno della lotta incessante dell’artista con la materia. Titans: un dialogo fra materiali, spazio e tempo (a Venezia, presso il Fondaco Marcello, dal 20/05 al 31/10/2021) è la sua prima mostra di scultura in assoluto. «Il grande pubblico mi conosce come designer di gioielli, ma io sono uno scultore. Quello che vedete oggi in questa mostra non è una trasformazione recente, ma il sedimento di una vita di apprendimento e meditazione, di tutte le mie esperienze», racconta Chan in un pomeriggio dalla luce variabile sul Canal Grande.
Titanio e ferro
È il segno di un dualismo costante fra spirito e materia, fra eternità e deperimento, forza degli elementi e debolezza umana. Le sculture sono in ferro e titanio, monumentali (mentre il maestro è noto per le sue micro-incisioni nelle pietre preziose). Il ferro rimanda ad età arcaiche, il titanio – difficilissimo da lavorare – al futuro, ai tempi interplanetari che verranno. «Il ferro arrugginirà, il titanio no. Entrambi mi sopravvivranno». Grazie alla incessante ricerca sul titanio, Chan ha inventato una porcellana cinque volte più resistente dell’acciaio, probabilmente un residuato della sua lavorazione. Nel 2019, un anello in questo materiale è stato incluso dal British Museum nella sua collezione permanente.
(Wallace Chan)
Figli del Cielo e della Terra come insegna la mitologia greca, i Titani erano giganti dalla forza sovrumana, gli dei primigeni. «Il titolo della mostra connette il mio presente al mio passato. Il tempo e lo spazio sono insignificanti senza la materia. Senza di essa, non esiste il tempo. Se non c’è materia, non c’è tempo. La bellezza non risiede nel singolo materiale, ma nel modo in cui essi dialogano. In questo spazio noi dobbiamo confrontarci con la realtà della verità».
(Wallace Chan, Senza titolo. © Foto di Teresa Scarale)
L’eterno pendolo del sé
Fra le severe barre e lastre di ferro delle sculture, emerge ripetuta la dolcezza di titanio del volto umano. Serafico. Distaccato eppur partecipe: è impossibile stabilirne il sesso, l’età. Se ne percepisce solo la saggezza interiore, la pace con l’universo, l’assoluta dimenticanza del sé. «Bisogna imparare ad apprendere pacificamente. Se hai un’anima pacifica puoi imparare a risolvere i problemi», afferma Chan. «Quando creo, sento di essere nella mia essenza. Vivo per creare e creo per vivere, è allora che trovo il senso della mia esistenza. Il sé continua ad andare e a venire. Io sono un corpo materiale, ma trascenderò il mio corpo, il mio tempo». Una delle sculture ha le fattezze di una goccia d’acqua che si ritorce, da cui emergono gli immancabili, angelici volti. L’acqua come metafora della vita? «In realtà l’acqua in Cina ha molti significati. Per me, crea la mente».
Da Michelangelo al Wallace Chan Cut
La storia di Wallace Chan come artista e designer inizia a 16 anni, all’inizio degli anni ’70, quando comincia a lavorare come apprendista intagliatore in una bottega a conduzione familiare. Lavora pietre opache come malachite, corallo, giada, lasciandosi ispirare dai simboli beneaugurali cinesi.
A 18 anni, la svolta. Si imbatte in un libro su Michelangelo: è l’illuminazione, il disvelarsi di un futuro possibile per sé. «C’era un mondo là fuori, e io dovevo vederlo. Ma non avevo soldi per viaggiare. Accadde però che mio nonno morisse, e che venisse seppellito in un cimitero cristiano. Così, cominciai a frequentare quei luoghi pieni di sculture di angeli e santi: potevo studiarli. A volte mi è persino capitato di dormirci. Poi, iniziai a studiare la mitologia greca». Poco dopo apre il suo proprio laboratorio: è pittore e scultore per circa un decennio.
In seguito, si avvicina da autodidatta all’arte dell’intaglio delle gemme preziose. Osserva che quando la luce penetra la pietra, i riflessi e i colori interagiscono fra di loro creando effetti diversi. Nel 1987 crea il suo proprio taglio, il Wallace Cut. All’interno di una pietra incide una figura che, grazie al taglio della gemma stessa e all’effetto della luce, appare moltiplicata per cinque (al Wallace Cut è ispirata la suggestiva installazione site-spicific presente al Fondaco Marcello).
(Wallace Chan, dettaglio dell’installazione site-specific al Fondaco Marcello, Venezia. © Foto di Teresa Scarale)
Siamo sul limitare del nuovo millennio, la carriera prosegue spedita. Il suo mentore e amico di Taiwan gli commissiona una stupa [monumento/reliquiario buddista], ma poco dopo muore.
Per Wallace è un duro colpo. Decide di abbracciare un percorso monacale zen, spogliandosi di ogni bene.
Dopo sei mesi di distacco dal mondo, la sua anima è lenita. Decide allora – completamente povero – di tornare alla vita secolare. Ha bisogno di lavorare. Torna all’arte dell’intaglio, ma partendo da materiali non nobili: cemento, ferro, acciaio. Ricominciare è duro, le commissioni stentano a ripartire. Fino a quando qualcuno non gli chiede di applicare ai gioielli la sua arte: un cliente gli consegna due diamanti old cut per un anello. E si rimette in moto la vita.
(Wallace Chan con un esempio del suo celebre taglio. © Wallace Chan)
Oggi torna alla scultura “non portatile” (ama definire i suoi gioielli sculture portatili: impossibile dargli torto). E lo fa a Venezia, città di cui era pieno il suo immaginario di bambino. Ad Hong Kong c’era infatti un caffè che recava il nome di “Venice” nell’insegna: «Emanava profumini deliziosi, ma io non potevo permettermi di entrare». Giungerà per la prima volta in Laguna all’inizio degli anni ‘90, «come un pellegrino».
(Un frame dal film “The Art of Materials”, di Martina Margaux Cozzi. © Martina Margaux Cozzi)
Lo stesso “pellegrino” con cui Martina Margaux Cozzi rivela di aver stabilito una connessione molto profonda, pur nei limiti del distanziamento fisico. La multi-premiata regista, autrice del poema visuale su Wallace Chan, The Art Of Materials (in uscita nell’estate 2021), non è nuova allo scambio con i protagonisti dell’arte contemporanea (suo è Under the Skin – In Conversation with Anish Kapoor). «Creo immagini che vogliono dare forma e visibilità alla parte nascosta del processo artistico. Nel mio moving portrait ho cercato di immaginare quello che è il mondo interiore dell’artista. Il luogo metafisico dove si accende la scintilla di quella particella di genialità». Il teaser del film lo lascia intuire: lo spazio onirico è prodromico alla creazione. E Chan toglie ogni dubbio: «Sogno perciò esisto. Creo quindi vivo».
(Un frame dal film “The Art of Materials”, di Martina Margaux Cozzi. © Martina Margaux Cozzi)
(Un frame dal film “The Art of Materials”, di Martina Margaux Cozzi. © Martina Margaux Cozzi)