Forse dipende dall’inflazione, che oramai oltrepassa il 10%, o forse dipende dall’avvicinarsi delle feste natalizie, che evidentemente rende tutti più buoni, fatto sta che i risultati delle aste che si sono tenute nei mesi scorsi hanno sorpreso molti addetti ai lavori. Lasciamo stare la vendita della collezione Paul Allen che fa storia a parte, come ben sa chiunque frequenti il mercato. Ma anche in un ambito più ristretto e locale – quello dell’arte italiana – ben lontano dai clamori e dal glamour delle grandi vendite di New York, si fatica a interpretare in modo logico e razionale l’andamento del mercato.
Probabilmente le categorie di cui ci si avvale sono superate. Chi frequenta il mondo delle aste è abituato a paragonare i prezzi raggiunti in sala con quelli che si possono rinvenire nel mercato, ma evidentemente i prezzi spuntati nelle ultime vendite sono frutto più di una sorta di esuberanza irrazionale che di un atteggiamento metodico e calcolatore. A volte pare che i compratori abbiano persino atteggiamenti compulsivi, che siamo abituati a conoscere nel mondo della moda, ma che oramai hanno contagiato anche l’arte.
Prendiamo ad esempio la vendita di Sotheby’s di Milano del novembre scorso. L’asta ha registrato un ottimo andamento, con una alta percentuale di vendita e risultati tutto sommato prevedibili. Ma come spiegare i 3.4 milioni raggiunti da un piccolo Morandi (Natura morta 1959, olio su tela, cm 25×30)? Non si trattava certo del capolavoro dell’artista, anzi. Inoltre era stato venduto solo qualche anno fa, e precisamente nel 2018, alla cifra di 912.000 dollari.
Sappiamo che Morandi è sempre più ricercato sul mercato, soprattutto in America dove non sono molte le occasioni di acquistare un dipinto dell’artista, se si esclude la galleria Zwirner che lo propone oramai da qualche anno, eppure la cifra raggiunta ci lascia quantomeno disorientati. L’unica spiegazione è che due acquirenti privati si siano fatti prendere la mano e che se lo siano conteso al di là di ogni ragionevole considerazione. Sarei curioso di capire se almeno uno dei due lo abbia effettivamente esaminato dal vero. Ne dubito fortemente, perché forse si sarebbe accorto che il dipinto era meno smagliante di quanto non apparisse in foto.
Se poi paragoniamo questo risultato a quello dell’asta di Farsetti, dove un dipinto non meno importante (Natura morta 1952, cm 36×43, olio su tela) e anzi più significativo, raggiungeva a malapena l’aggiudicazione di 1,2 milioni, si potrebbe persino dire che siamo di fronte a fenomeni inspiegabili. È pur vero che il quadro Farsetti era penalizzato perché non ancora corredato da un certificato di esportazione, ma la differenza rimane comunque abissale. Se poi passiamo ad esaminare le altre aste, le sorprese non mancano. Prendiamo ad esempio la Carla Accardi di Dorotheum, (Animale immaginario, 1988, vinilico su tela, cm 100×150), un quadro grande ma non importante, essendo stato eseguito negli anni 80, che però ha fatto oltre 300.000 euro, oppure il piccolo e delizioso Capogrossi sempre di Dorotheum (Superficie n. 149, 1956, olio su tela, cm 65×50,), anch’esso venduto a quasi 300.000 euro.
Non sono risultati in linea con il mercato. E che dire del Depero venduto nell’asta del Il Ponte (Ballerina, 1917, olio su cartone, cm 65×50)? Aggiudicato a 75.000 il maggio scorso, è stato riproposto nell’asta di dicembre perché l’acquirente nel frattempo cambiato idea e ha rinunciato all’acquisto. Ha fatto decisamente male, perché qualche mese dopo è stato aggiudicato esattamente a 200.000, quindi a più del doppio.
Potrei continuare a lungo, elencando tutto ciò che mi ha stupito, ma quello che conta è il capire perché. Abbiamo detto che la paura dell’inflazione potrebbe essere una causa, ma se così fosse ciò dovrebbe riflettersi anche sulle gallerie private, fatto, quest’ultimo, che mi sento di escludere. La verità è che le vendite all’asta sono di moda, stanno conquistando un pubblico sempre più ampio, anche di millennial, e soprattutto hanno una crescente diffusione grazie ai motori di ricerca.
Fra poco si arriverà al punto che un algoritmo troverà un cliente adatto per ogni dipinto, cosa che già capita per la musica, quando alcune app selezionano una compilation sulla base delle nostre preferenze. Se a questo aggiungiamo un po’ di sana competizione, il gioco è fatto. Basta che due clienti si incaponiscano sullo stesso oggetto, magari per capriccio, e il prezzo di un’opera d’arte lievita al di là di ogni previsione. Non credo che questa tendenza durerà per sempre.
Di solito questi fenomeni sono transitori. Qualcuno anzi dice che siamo al canto del cigno, e che il mercato fra poco risentirà della crisi che ha già investito la finanza. Purtroppo – o per fortuna – nessuno ha la sfera di cristallo e quindi è meglio cercare di osservare quello che succede piuttosto che prevedere il futuro, una pratica che è meglio lasciare alle chiromanti.
Detto questo, si possono evidenziare alcune indicazioni di massima: Accardi, Boetti, Dorazio e Schifano (con data) sono in crescita, mentre Burri, Castellani, Bonalumi in regresso. Tutto il contrario di qualche tempo fa, ma sappiamo che i clienti comprano quello che sale e vendono quello che scende, quindi c’è poco da stupirsi. A proposito di Schifano, va segnalato il nuovo record price dell’artista: 2.3. milioni di dollari per un “monocromo” degli anni sessanta (Tempo moderno, 1962, smalto su carta intelata, cm 180×180), venduto dalla Sotheby’s a Parigi, premiato perché copertina del catalogo della mitica mostra della Pilotta, record che ha polverizzato quello della settimana precedente, quando un lavoro della stessa data (La stanza dei disegni, smalto su carta intelata, cm 180×160) aveva realizzato “solo” 1,3 milioni nell’asta di Christie’s.