I mercati privati portano rischi pubblici? A questo interrogativo cercavano di dare risposta, nel maggio 2024, gli economisti della Bce. Del private debt, nello specifico, aveva parlato un mese prima il Fmi sostenendo che “ha raggiunto una dimensione sufficientemente grande da competere direttamente con i mercati pubblici” il che potrebbe “amplificare gli shock negativi sull’economia”. Ma quali sono le effettive dimensioni di questo mercato? A fine 2023, le masse gestite in private debt in Europa avevano raggiunto i 427 miliardi di dollari, contro 1.200 miliardi registrati al settembre dello stesso anno sul mercato Usa, secondo i dati Preqin. In Italia, invece, i fondi di private debt avevano investito complessivamente poco più di 3 miliardi a fine 2023. Secondo i dati pubblicati dalla Bce, le aziende finanziate dal private debt non sono più rischiose delle controparti sui mercati pubblici; a livello internazionale, ha scritto però il Fmi, è così: un private debt, è mediamente più rischioso di un bond high yield. Al di là dei rischi sistemici in caso di crisi, c’è poi l’esposizione crescente degli investitori “al dettaglio”, grazie alla spinta di colossi come Blackstone, Ares e altri fondi. Ma il private debt sta crescendo senza sufficienti reti di sicurezza? E quanto può essere equiparata la situazione americana a quella del private debt italiano?
Professor Cipolletta, in Europa e in Italia non ci siamo ancora vicini, ma in America da tempo si legge della concorrenza del private debt al credito bancario, con relative domande sulla sua “affidabilità”…
È importante chiarire che tra private debt e sistema bancario non si tratta di vera concorrenza, ma di complementarità. In Europa il private debt è nato dopo la crisi finanziaria del 2008-2011, quando le banche hanno ridotto i finanziamenti a medio-lungo termine, specialmente per le piccole e medie imprese. Le grandi imprese potevano accedere ai mercati obbligazionari, ma le Pmi si sono trovate in difficoltà. Si parlava molto di mini-bond in quegli anni, e il governo, sotto la guida del ministro delle Finanze, Fabrizio Saccomanni, ha cercato di favorire soluzioni alternative. La Cassa Depositi e Prestiti, attraverso il Fondo Italiano d’Investimento, ha promosso il primo fondo di fondi dedicato al private debt. Con una dotazione iniziale di 500 milioni di euro, siamo riusciti a raccogliere 1,5 miliardi, che hanno alimentato più di dieci fondi dedicati. Questo strumento ha liberato le banche da compiti per loro sempre più onerosi, come il finanziamento a lungo termine, contribuendo al sostegno delle imprese.
Se si è arrivati a questa complementarità non è stato anche per le restrizioni regolamentari imposte alle banche?
Assolutamente. Il private debt è un ibrido tra finanziamento bancario e private equity. Gli operatori non si limitano a finanziare, ma si impegnano nel monitoraggio e nella gestione dei progetti, anche richiedendo modifiche ai piani aziendali. Questo coinvolgimento riduce il rischio rispetto al credito tradizionale. Inoltre, il private debt è fortemente regolamentato da organismi come Consob e Banca d’Italia, distinguendosi dallo shadow banking, che opera senza supervisione. Gli operatori shadow possono generare rischi sistemici trasferendo problemi a tutto il sistema finanziario, cosa che non accade con il private debt.
Spesso, nella stampa americana, si legge che il private debt non è stato ancora testato in situazioni di stress sistemico paragonabili alla Grande crisi finanziaria. E non sappiamo se creerà problemi simili a quelli allora generati dalle banche…
Il Covid-19 è stato un banco di prova significativo. Durante la pandemia, molte imprese hanno interrotto i progetti di crescita, ma gli operatori di private debt sono intervenuti rifinanziando aziende in difficoltà momentanea. Questo ha dimostrato la resilienza del settore. Inoltre, gli operatori italiani sono meno indebitati e fanno meno ricorso alla leva finanziaria rispetto a quelli americani, riducendo il rischio sistemico.
I costi del private debt sono più elevati rispetto ai prestiti bancari. Un profano può facilmente pensare che questo sia dovuto a un maggiore rischio di chi riceve il finanziamento… eppure i dati Bce non confermano questa ipotesi.
Non si tratta tanto di rischio, quanto di natura del finanziamento. Il private debt spesso non richiede garanzie collaterali solide, il che comporta costi più alti. Inoltre, il capitale è immobilizzato per lunghi periodi, e questo richiede una remunerazione adeguata. Tuttavia, i costi si stanno stabilizzando grazie alla maggiore diffusione di questo strumento.
Una regolamentazione più ampia potrebbe aumentare la fiducia nel settore del private debt?
Il problema principale non è la regolamentazione, ma la dimensione e la liquidità del mercato. In Italia il private market è troppo piccolo per sviluppare un mercato secondario come in Francia, dove esistono fondi che acquistano quote esistenti, garantendo maggiore flessibilità agli investitori. In Italia, invece, i fondi sono generalmente chiusi, il che significa che l’investitore deve attendere fino alla fine dell’operazione, che può durare 10-12 anni, per recuperare il proprio capitale. Questa mancanza di liquidità è un problema per i risparmiatori privati, che potrebbero non essere disposti a vincolare i loro capitali per un periodo così lungo. Con un mercato dei capitali europeo integrato, potremmo aumentare le dimensioni e la liquidità del settore, ma è un processo che richiede una visione di lungo termine.
La politica italiana offre adeguato supporto allo sviluppo del private debt?
La conoscenza del private capital tra i politici è ancora limitata. Viene considerato marginale rispetto al sistema bancario. Si tende a favorire la Borsa come principale strumento di finanziamento, ignorando che la maggior parte delle imprese italiane non è quotabile. Il private capital rappresenta una soluzione essenziale per sostenere il nostro tessuto imprenditoriale, ma manca una visione strategica in questo senso.