L’invalidità, inoltre, deriverebbe anche dal fatto che l’esistenza di questi patti coercirebbe la volontà dei coniugi a rimanere sposati anche in caso di crisi, onde evitare di dover far fronte a particolari obbligazioni economiche.
In altre parole, e più in generale, il limite insuperabile dal quale deriverebbe la sanzione di nullità di tali patti, sarebbe quello di interferire sulla libertà di status personale, la quale non potrebbe essere condizionata e tanto meno contrattata, a priori, oltretutto prima di un futuro matrimonio.
In questa prospettiva sarebbero senz’altro nulli i patti preordinati a limitare o condizionare i futuri coniugi relativamente alla scelta se separarsi o divorziare, oppure rivolti a regolamentare doveri di fedeltà, doveri nei confronti dei figli, e quindi tutto ciò che incide sullo status e relative responsabilità di coniuge e genitore, la cui pattuizione lederebbe norme imperative e di ordine pubblico.
Di qui una sorta di preconcetto diffuso o avversione alla conclusione di tali patti, non ultimo proprio in ragione di un silenzio legislativo specifico che evidentemente ripone tutte le tutele dei coniugi nell’eventuale contenzioso giudiziario.
Da tempo, in ogni caso, la dottrina più illuminata, e anche, a onor del vero, qualche pronuncia giurisprudenziale (Cass. civ., 05.07.1984, n. 3940; Cass. civ., 12.05.1994, n. 4647; Cass. civ., 21.02.2001, n. 2492; Cass. civ., 13.01.2012, n. 387; Trib. Milano, Sez. IV Civ., 2 maggio 2016) sembrano aver precorso questa apertura verso la validità di questi patti.
In particolare, si è osservato che un patto pre-matrimoniale non comporta alcuna ingerenza o pressione nel coniuge che intenda divorziare: anche in assenza di un simile patto, infatti, è evidente che il coniuge anche senza aver stipulato un preaccordo non può che essere consapevole che divorziando ci potranno essere delle conseguenze economiche, anche critiche, derivanti dallo scioglimento del matrimonio; si tratta di capire se in fondo sia meglio, in presenza di un patto pre-matrimoniale, averne contezza e regolamentazione preventiva, così da affrontarle con più serenità, oppure affrontare un eventuale contenzioso, anche dall’esito e costi incerti.
Secondo chi ritiene ammissibili questi patti, si dovrebbe interpretarli come dei contratti sottoposti alla condizione sospensiva del divorzio (sull’ammissibilità di questa specifica condizione si veda per esempio : Cass. civ., 21.12.2012, n. 23713; Cass. civ., 21.08.2013, n. 19304): la prima pronuncia, in particolare, afferma che “l’accordo patrimoniale stipulato dai nubendi in relazione a un eventuale fallimento dell’unione matrimoniale è valido purché non riguardi diritti indisponibili, quali quello dell’assegno di divorzio”.
I nubendi in vista del loro matrimonio si potrebbero accordare nel senso che ciascuno di loro dovrà compiere in favore dell’altro determinate prestazioni (esempio trasferire la casa, cedere il terreno, pagare una certa somma un tantum) alla condizione sospensiva che tra loro intervenga un divorzio, purché tale patto abbia come finalità specifica quella di disciplinare le conseguenze patrimoniali dell’eventuale divorzio e non quello di costringere uno di essi a non chiedere, o chiedere, il divorzio.
L’accordo, inoltre, dovrebbe prevedere la separazione o il divorzio come condizione sospensiva degli obblighi dal medesimo derivanti. In questo contesto, appare evidente che le condizioni economiche pattuite con questo patto se eque, cioè proporzionate rispetto ai patrimoni e ai redditi delle parti oppure commisurate ai rapporti patrimoniali tra loro intercorsi in ragione del matrimonio, non potrà che essere valido.
È allora assolutamente importante, ove i futuri coniugi vogliano addivenire alla redazione di un patto pre-matrimoniale, suggerire loro di dare conto analiticamente di quelle che sono le proprie capacità reddituali e i propri averi (mobili e immobili) e precisare se sono disposti ad effettuare reciproche attribuzioni in ragione o in vista del matrimonio ovvero in caso di un futuro eventuale divorzio.