In seguito al decesso del proprio padre, noto collezionista italiano, il Sig. Tizio diviene proprietario di una collezione ereditata che comprende opere d’arte di grande pregio di alcuni maestri del Futurismo, precedentemente vincolata dal Ministero della Cultura per il suo interesse storico e artistico.
Il Sig. Tizio, anche per l’affetto derivante dalla provenienza delle opere, si occupa con dedizione della loro conservazione con tutte le accortezze consigliate dal proprio restauratore di fiducia quale ad esempio una temperatura adeguata all’interno dei locali dove le tele sono ospitate, monitoraggio costante dello stato delle tele da esperti restauratori. Inoltre, periodicamente il Sig. Tizio consente, a chi lo richieda, di visitare la pinacoteca per ammirare gli splendidi dipinti.
Sebbene il Sig. Tizio ha impiegato tutte le sue forze per tutelare la collezione paterna riceve improvvisamente la notifica di un provvedimento di esproprio della pinacoteca da parte dello Stato italiano al fine della sua destinazione pubblica in ragione dell’importante rilevanza artistica della collezione.
Il Sig. Tizio si domanda come sia possibile che lo Stato possa unilateralmente privarlo della galleria di famiglia che lui, peraltro, custodisce con cura, impegno e dispendio di energie.
In effetti, la domanda del Sig. Tizio è legittima atteso che la nostra Costituzione recita che “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge” (art. 42 Cost.).
Nondimeno, bisogna considerare che l’ordinamento riconosce in favore dello Stato il potere di acquisire beni culturali dai privati al fine della loro destinazione pubblica, con modalità che derogano alle regole del diritto privato così da rendere del tutto privilegiata tale acquisizione. Ci si riferisce all’espropriazione per pubblica utilità in materia di beni culturali che trova specifica disciplina nel Capo VII del Codice dei Beni Culturali (D.Lgs. 42/2004).
La sua ratio è quella di garantire l’interesse pubblico della salvaguardia del patrimonio culturale, mediante la tutela del bene, vale a dire conservazione, protezione, diffusione e fruizione pubblica di esso.
Il sacrificio imposto al collezionista che patisca la sottrazione di proprie opere d’arte per il perseguimento delle anzidette finalità trova fondamento costituzionale nel combinato disposto degli artt. 9 e 42 Cost., il quale ultimo consente l’espropriazione della proprietà privata – dietro indennizzo e per motivi di interesse generale – mentre il primo individua un interesse di livello costituzionale nella tutela del patrimonio artistico nazionale.
Difatti, affinché l’amministrazione possa adottare l’intervento espropriativo è necessaria la presenza di un interesse “importante” concernente la pubblica fruizione del bene culturale (art. 95 del Codice). Ruolo determinante ai fini della legittimità del provvedimento riveste quindi la sua motivazione (obbligatoria), che deve inerire all’importanza, appunto, derivante dall’accesso pubblico al bene con la previsione che il trasferimento alla proprietà pubblica consentirebbe una migliore fruizione di esso da parte della collettività e che tale fruizione sarebbe funzionale ad esaltare i valori espressi dall’opera oltre a provare che la collezione riceverebbe una maggiore tutela ai fini conservativi.
Dunque, il principio che giustifica l’espropriazione dei beni culturali risiede nella concezione, di matrice pubblicistica, che la proprietà pubblica di essi è da preferire a quella privata, perché garantirebbe una migliore tutela del patrimonio culturale che costituisce una delle maggiori ricchezze del nostro Paese.
Tale concezione, al di là della sua condivisibilità per l’evidente sacrificio della proprietà privata, trova il suo precipuo limite nell’art. 42 Cost. citato, il che significa che “la finalità dell’espropriazione deve consistere pur sempre in qualcosa di ulteriore rispetto all’espropriazione, la quale è un mezzo e non un fine” (così il Consiglio di Stato, Sez. I, nel parere n. 2522 del 25.5.2012).
Ecco che, sebbene la privazione dell’opera d’arte sofferta dal collezionista deve essere, poi, compensata attraverso il pagamento di un’indennità consistente nel cosiddetto valore ‘venale’ del bene (art. 99 del Codice), per evitare che l’espropriazione si riduca ad una apprensione del bene fine a se stessa, è opportuno che la motivazione del provvedimento dimostri, unitamente alla finalità di garantire la migliore fruizione dell’opera di cui si è detto, la presenza anche degli ulteriori elementi indicati nell’art. 95 del Codice e cioè non accettabili condizioni di custodia da parte del collezionista e interesse pubblico al loro miglioramento.
Non si può consentire, cioè, che l’amministrazione privi il collezionista di proprie opere d’arte il cui stato e la cui modalità di conservazione siano ideali; allo stesso tempo, non può bastare, per giustificare l’espropriazione, il solo scopo di renderle fruibili dalla collettività.
Tornando dunque al Sig. Tizio, non potrebbe essere considerata legittima l’espropriazione della sua galleria privata fondata, come nel caso, sulla sola rilevanza artistica della collezione. Infatti, il Sig. Tizio è in grado di dimostrare l’accessibilità al pubblico della pinacoteca e il suo perfetto stato di conservazione. Ragionando altrimenti, l’espropriazione nei confronti del Sig. Tizio si configurerebbe come uno ‘spoglio’ con finalità di mero incremento del patrimonio culturale nazionale.
Per chiarezza, è opportuno distinguere l’espropriazione di un bene culturale dal suo acquisto coattivo (art. 70 del Codice) che opera nell’ambito del procedimento inteso all’ottenimento dell’attestato di libera circolazione internazionale di un bene culturale non vincolato, per il quale si rinvia a “Acquisto coattivo di arte: tutela alternativa o atto di forza“.