Il legislatore è intervenuto per agevolare l’ingresso e la permanenza dei nomadi digitali nel nostro paese
Regole e prassi in questa intervista a Carlo Majer ed Edgardo Ratti, co-managing partner della sede italiana dello Studio legale Littler Mendelson
Negli ultimi due anni, complici i lockdown pandemici, il fenomeno della digitalizzazione del lavoro ha preso il volo. La maggior parte dei professionisti ha avuto modo di sperimentare – e apprezzare – il lavoro da remoto.
Avvocati, ingegneri, imprenditori, impiegati, architetti, funzionari, dipendenti, attraverso l’impiego delle nuove tecnologie hanno svolto (e in buona parte continuano a svolgere) la prestazione richiesta pur senza essere fisicamente presenti sul luogo di lavoro. Si tratta dei nomadi digitali, figure che saranno predominanti tra i rappresentanti della Gen Z.
Per fare il punto su questa categoria di nuovi lavoratori e affrontare gli aspetti legali e fiscali che ne conseguono, abbiamo intervistato gli avvocati Carlo Majer ed Edgardo Ratti, co-Managing Partner della sede italiana dello Studio Littler Mendelson.
Dal punto di vista legale, come è vista e come è inquadrata la figura del nomade digitale in ambito domestico?
Partiamo dalla individuazione iniziale di ciò che un “no- made digitale” non è. Non sono nomadi digitali tutti coloro che, a diverso titolo, operano in un Paese diverso da quello del proprio datore di lavoro per una esigenza connessa alla attività svolta. Dalla categoria devono poi essere esclusi i telelavoratori individuati da un datore di lavoro straniero che non ha una sede di lavoro nel Paese di residenza del dipendente. Per entrambe queste figure, le normative locali e internazionali hanno da lungo tempo introdotto discipline specifiche che non suscitano particolari dubbi.
Posta questa necessaria premessa, il “nomade digitale” può essere definito come quel lavoratore assunto nella sua giurisdizione locale che, per motivi personali, vuole recarsi all’estero e lavorare da remoto con o senza l’assenso del proprio datore di lavoro.
Da un punto di vista legale, è un lavoratore da remoto per il quale sussiste una dissociazione tra il paese di assunzione e di residenza del datore di lavoro e quello dove viene eseguita la prestazione, per ragioni non connesse alla prestazione stessa. Secondo poi una interpretazione più ampia, sarebbero “nomadi digitali” tutti coloro che, grazie alla tecnologia, rendono la propria prestazione lavorati- va indipendentemente dal luogo in cui si trovano. Tale definizione sembra tuttavia troppo ampia e certamente risulta imprecisa in un contesto normativo come quello italiano (almeno al netto delle misure emergenziali), dove sussistono precisi limiti al lavoro da remoto che non consentono il “nomadismo”.
Di recente il legislatore italiano ha però introdotto una disposizione per favorire l’arrivo di questi nomadi digitali. Può dirci di più sul punto?
Preso atto della vastità del fenomeno, sviluppatosi appunto nel corso della pandemia, anche il legislatore italiano ha inteso intervenire, agevolando l’ingresso e la permanenza nel Paese fino ad un anno a quei lavoratori altamente specializzati e in grado di operare autonomamente da remoto. Ciò ovviamente agevola la possibilità per i lavoratori extracomunitari di scegliere il nostro Paese quale meta per lavorare da remoto, anche se non affronta le tematiche più scottanti: dalla normativa applicabile, al regime di sicurezza sociale, agli aspetti fiscali che ne conseguono.
Questi ultimi sono gli aspetti su cui un nomade digitale dovrebbe soffermare l’attenzione?
Sono possibili problematiche che rappresentano necessari elementi di attenzione, tanto per il “nomade digitale” che per il datore di lavoro che viene, volente o nolente, trascinato in un rapporto di lavoro potenzialmente transfrontaliero. È proprio questo, peraltro, l’aspetto che crea oggi i maggiori problemi e che necessiterebbe di una regolamentazione uniforme, almeno a livello comunitario. Si tratta infatti di decidere se una prestazione lavorativa resa all’estero – ma i cui effetti, grazie alla tecnologia, si producono integralmente nel Paese di costituzione del rapporto – possa effettivamente essere considerata quale lavoro estero. Stabilito questo aspetto, avremo la risposta alle questioni di cui sopra, come il regime di sicurezza sociale e la normativa applicabile, connessi al luogo in cui viene resa la prestazione per effetto del principio di territorialità.
Vengono in rilievo anche implicazioni di natura fiscale. Quali?
L’aspetto fiscale è centrale. La permanenza di una persona fisica nel territorio di uno Stato diverso da quello di residenza comporta, almeno in linea di principio, l’assoggettamento al relativo regime fiscale; tuttavia, differentemente dai più complessi problemi relativi a sicurezza sociale e normativa applicabile, l’inclusione in un determinato regime fiscale si basa su di un mero dato di fatto, che è quello della permanenza sul territorio per un certo periodo di tempo, ciò del tutto indipendentemente dal fatto che in tale territorio venga prodotto un reddito. Ecco quindi che il “nomade digitale” dovrà, in funzione del paese ospitante, occuparsi di verificare le condizioni che potrebbero portare a un suo eventuale assoggettamento al regime fiscale, restando il datore di lavoro del tutto estraneo alla problematica.
Quali sono le criticità cui un nomade digitale potrebbe andare incontro e perché per un nomade digitale rivolgersi ad un consulente esperto potrebbe essere utile?
Noi assistiamo solo il mondo dell’impresa: ma è evidente che senza una tutela garantita dall’azienda, il singolo lavoratore aspirante “nomade digitale” rischia di sottovalutare aspetti importanti, come quelli citati. Proprio tale considerazione rende anche sconsigliabile l’iniziativa del lavoratore non concordata con il datore di lavoro, fatto salvo quando ciò avvenga per ridotti periodi, visto che lo stesso datore di lavoro potrebbe risultare impattato dalla scelta. Questa è anche la ragione che sta suggerendo a molti datori di lavoro di adottare specifiche policy per regolamentare a livello aziendale il fenomeno.