“Il nostro Family Office Survey 2024 è la mappatura esistente più completa di tutti i family office del globo”, afferma Francesco Lombardo di San Chirico, head of Citi Private Bank Italy, “ha coinvolto oltre 340 intervistati”. Una fotografia dei loro investimenti attuali e delle loro intenzioni prospettiche. Come si sono modificati i portafogli dei family office nel 2024, come si modificheranno nel 2025? Al momento, i FO stanno spostando la liquidità su reddito fisso ed equity, e sono positivi per i prossimi 12 mesi, con una stima tra il 5 e il 15% per i propri rendimenti. Non mancano tuttavia alcune importanti categorie di preoccupazioni (no, le prime non sono le questioni geopolitiche, come si vedrà).
Qualche considerazione introduttiva sui family office italiani?
«Inizio col dire che è aumentata l’allocazione dal cash agli investimenti. L’asset allocation media è bilanciata con un 17%-20% di alternativi, 28-30% equity, il resto tra cash e reddito fisso. Interessano molto i direct deal in società non quotate. Da noi la “moda” dei family office è iniziata molto più tardi rispetto al mondo anglosassone. Ora sta aumentando il livello di strutturazione, sia in Italia che in Europa. In Italia in particolare il numero dei single family office sta crescendo con figure professionali specializzate, asset class specialist. Un FO deve essere grande, potersi giovare delle economie di scala. Aspetto fondamentale per conservare il valore degli asset e prepararne il passaggio generazionale, una delle questioni che le grandi famiglie sentono maggiormente».
Presentando il rapporto di Citi, lei dr. Lombardo ha affermato che per i family office in Italia, l’asset allocation si è spostata verso il reddito fisso. Ma questa predilezione non è stata sempre una caratteristica del risparmio italiano?
«Guardando all’Italia, è opportuno distinguere tre periodi. Fino al 1994, era la cedola a regnare sovrana: i titoli di Stato rendevano fino al 20%, esentasse e al portatore. Poi, da con i primi shock di Borsa e la massiccia riduzione di tassi di interesse al 12, 10, 8, 6, 4%, fino ad arrivare al vero e proprio crollo negli anni 2000. Da quel momento ci si è posti il problema concreto della remunerazione della liquidità, e i risparmiatori hanno iniziato a diversificare (anche il pe, a volte incorrendo in investimenti non fortunati).
Poi negli ultimi due anni i tassi hanno vissuto un rialzo, e adesso la logica è quella del capital gain: se compro obbligazioni quando i tassi sono alti – assicurandomi un 3-4% di interesse – poi posso rivenderle a un prezzo maggiore quando scenderanno, realizzando un guadagno in conto capitale. Prima dell’estate il ragionamento è stato proprio questo: l’equity è andato su tantissimo, fermo restando il pe, cosa facciamo? Alleggeriamo l’equity e andiamo lunghi sul reddito fisso. Una scommessa molto intelligente. Ormai questo effetto “abbassamento dei tassi” è stato scontato dal mercato. La maggior parte dei FO è positiva per il 2025 e si aspetta dei ritorni fra il 7 e il 10%».
Quali i timori per il 2025?
«Può sembrare strano, ma la questione tassi resterà calda. Continueranno a scendere, saliranno? Non è che l’inflazione sia stata del tutto debellata. Sul punto, vale la pena di sottolineare la differenza di atteggiamento fra Fed e Bce. Mentre infatti quest’ultima tenta di correggere gli effetti negativi dell’inflazione una volta che essa si è manifestata, la Fed cerca di anticipare il rialzo dell’inflazione o della crisi. Sono due filosofie di utilizzo dei tassi sensibilmente diverse. Un’altra preoccupazione attiene agli elementi conflittuali fra Usa e Cina, tipicamente la questione Taiwan. Un altro concern riguarda le valutazioni, effettivamente un po’ elevate in alcuni settori (IT, safety, bank). In ultima posizione fra le principali preoccupazioni – e ammetto che ciò possa sorprendere – vi è la situazione geopolitica globale (Ucraina e Medio Oriente in primo luogo) e i connessi riflessi che su di essa potrebbe avere una vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris alle prossime presidenziali Usa».
Riscontra una certa armonizzazione di portafoglio nei family office a livello globale?
«Si. A livello generale, prescindendo dalle singole differenze che pure ci possono essere, si assiste a un certo bilanciamento nel senso che il rischio di investimento viene assunto più per gli investimenti nelle imprese che per la liquidità».
Personalmente reputa che il family office in quanto tale possa essere un buono strumento di generazione di benessere?
«La risposta è si. Qualunque FO nel momento in cui viene strutturato in maniera efficiente e managerializzato, emette flussi di investimenti direzionati nei punti giusti dell’economia. Ciò perché le grandi famiglie, occupate nella gestione della loro attività quotidiana possono non avere fisicamente il tempo di valutare investimenti opportuni e benèfici per esempio in società non quotate. La strutturazione di un family office è fondamentale. Non si dimentichi che si tratta di un nuovo intermediario che necessita di professionisti qualificati».
Quali sono gli alternativi preferiti a livello globale?
«Sono cresciuti gli investimenti privati diretti. Non molto il venture capital, per la sua elevata rischiosità. All’interno del private equity si riscontra una grande passione per i coinvestimenti. È poi in ascesa il mercato secondario: si comprano per esempio le limited partnership in vendita (magari quando si deve fare liquidità). Vi sono fondi che se ne occupano, desk all’interno delle banche. Stanno poi tornando gli hedge fund e le strategie di copertura olistiche: c’è un nocciolo di gestori molto bravi in grado di fornire ritorni molto interessanti a fronte di minori costi. Si adottano in misura maggiore strategie di investimento sistematiche per i clienti che desiderano creare alfa non correlato».
Infine, il report rileva che la quota di patrimonio allocata su azioni di società quotate è passata dal 22% al 28%, mentre quella in reddito fisso è salita dal 16% al 18%. A livello globale, la quota di private equity ha subito una flessione, dal 22% al 17%. Come mai? Può aver impattato il maggior tempo necessario per le valutazioni rispetto al rialzo azionario quotato. I maggiori destinatari dell’appetito azionario sono stati il Nord America (60%), l’Europa (16%), l’Asia-Pacifico esclusa la Cina (12%). L’ex Celeste Impero ha visto quasi dimezzata la sua attrattività (dall’8% al 5%). Si noti che la quota di allocazione sul Nord America è aumentata dal 57%.
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