Da quasi 300 anni danza come un equilibrista su un filo teso fra tradizione e innovazione. Sospinta dal vento del cambiamento, le sue vicende si scrivono sullo sfondo della storia, a volte complicando la sua capacità di restare in bilico, a volte permettendole di ideare figure mai viste prima. È l’epopea moderna degli Amarelli, signori della liquirizia dal 1731, e dell’omonima impresa familiare di Rossano (Cosenza), il cui legame con la terra calabra affonda le sue radici in profondità, quando a governare la punta della penisola erano nientemeno che i Normanni. Radici profonde come quelle della Glycyrrhiza glabra, straordinaria varietà dolce-amara della pianta spontanea che da sempre cresce infestante nella costa ionica, amata (e domata) da ben 13 generazioni di Amarelli. Un’impresa di successo, oggi leader globale nella lavorazione della liquirizia pura, costruita grazie a “felici intuizioni, tanta passione e valori ereditati e custoditi con cura” racconta Pina Amarelli Mengano, presidente della Amarelli Fabbrica di Liquirizia. Figura chiave della transizione contemporanea dell’azienda, ‘Lady liquirizia’ (così l’ha soprannominata la stampa) accompagna la crescita del family business da oltre 40 anni.
‘Felici intuizioni’, dicevamo. Quali hanno segnato la storia imprenditoriale degli Amarelli?
“La prima origina nel ‘500, quando la famiglia scoprì le straordinarie proprietà della liquirizia (antinfiammatorie, antiossidanti, espettoranti, gastroprotettive ed epatoprotettive, oltre che tonificanti) e iniziò a commercializzarne i rami. Per la seconda vi è una data precisa, il 1731, quando gli Amarelli misero a punto un processo di estrazione del succo e fondarono il concio, l’impianto proto-industriale che avrebbe trasformato per sempre la storia di famiglia. Nel 1919, un’altra svolta: Giuseppina Amarelli, alla guida dell’azienda in un’epoca e un luogo in cui alle donne poco era concesso, innovò il confezionamento delle pastiglie di liquirizia, fino a quel momento vendute sfuse in drogheria. Introdusse la scatoletta di metallo, che ne agevolò il trasporto, la vendita e la conservazione. Un’operazione di marketing ante litteram che legò indissolubilmente il prodotto al nome di famiglia e al territorio calabro, grazie allo slogan riportato sulla confezione: “Liquirizia di Calabria, garantita pura, Barone Amarelli, Rossano (Italy)”. Un’idea così innovativa da essere oggi immortalata nelle pagine dell’enciclopedia Treccani”.

E la più recente?
“Bussò alla porta ben prima dei 200 anni cui l’impresa si era abituata. Avvenne negli anni ‘80 con la prematura scomparsa di mio cognato Giorgio e, qualche anno dopo, di suo padre Giuseppe: in quel momento tutta la famiglia partecipò a un passaggio generazionale difficile, una riorganizzazione rapida in cui ciascuno mise sul tavolo le proprie competenze. Dalla mia avevo una laurea in giurisprudenza, la passione per la storia e l’iscrizione all’albo dei giornalisti pubblicisti. Amarelli non era la mia famiglia d’origine e della sua eredità poco avevo compreso quando alla fine degli anni Sessanta scoprii Rossano. Incuriosita, passavo il mio tempo nell’archivio dell’azienda, sfogliando le vecchie pubblicità e imparando dalle scelte imprenditoriali di chi ci aveva preceduto. Dopo la straordinaria intuizione della mia omonima, la produzione e commercializzazione della liquirizia aveva attraversato momenti di grande crisi, arrivando a un periodo di stagnazione. Serviva nuova linfa e con Giorgio capimmo che questa avrebbe potuto arrivare dal nostro passato. Riportammo in vita l’idea di Giuseppina: lui scelse di utilizzare confezioni di alluminio, materiale moderno e riciclabile, e io capii che le immagini d’epoca potevano posizionare con forza il brand Amarelli anche nei mercati esteri. Così arrivai a occuparmi della comunicazione aziendale, il cuore pulsante di ogni società. Quando arrivò il momento di individuare un nuovo management, mi trovai in prima linea: seppur complessa, quella fase rappresentò un’opportunità unica per ripensare l’impresa di famiglia alle porte del nuovo millennio”.
Amarelli è leader nella liquirizia pura. Ma quali ingredienti oltre al succo di questa radice compongono la ricetta del vostro successo?
“Senz’altro la tradizione: avere alle spalle una storia secolare da cui prendere esempio e da raccontare è un punto di forza unico, ma non basta. Essa non deve rappresentare un limite, bensì un volano di crescita che ricorda come l’innovazione (dei processi produttivi e del marketing) sia centrale per il successo. Il terzo è l’internazionalizzazione, forse il più impegnativo ma anche il più gratificante. Espandersi all’estero porta sé sfide che conferiscono ancora più sapore ai primi due ingredienti: da una parte ci costringe a metterci in discussione e dall’altra ci spinge a chiederci cosa cambiare per arrivare dove desideriamo”.

Con la prima Giuseppina Amarelli condivide il nome, uno dei suoi cognomi e il ruolo di leader dell’azienda di famiglia. Come lei, Giuseppina era donna e imprenditrice nel Sud Italia. Quale insegnamento le ha lasciato?
“Giuseppina fu una pioniera e lo testimoniano i documenti conservati nel nostro archivio. Risiedeva in un educandato di Napoli, città in cui avrebbe desiderato frequentare la facoltà di giurisprudenza e che quando fu costretta ad abbandonare salutò componendo una canzone d’addio. I suoi interessi non si limitavano alla musica o al ricamo, ma erano quelli di una vera e propria imprenditrice. Così, tornata in Calabria, il fratello Giuseppe la chiamò al suo fianco nella gestione del patrimonio di famiglia, suddiviso dal padre tra i latifondi (destinati al figlio maschio) e il concio (all’epoca considerato attività marginale, quindi lasciato a Giuseppina). Nubile, fu una donna indipendente: viaggiava in solitaria fino a Cosenza, gestiva i contratti con i fornitori e calmierava i prezzi delle radici di liquirizia acquistate presso terzi. Non aveva paura di essere donna e questa è la lezione più grande che mi abbia insegnato. Quando hai intelligenza, competenze e passione (e non temi di crederci davvero), il resto spesso arriva da sé”.
Cos’altro vi accomuna?
“Anch’io come Giuseppina Amarelli avevo un sogno proibito, diventare magistrato, ma negli anni ‘60 le donne erano escluse da questo esercizio. Ciò che ha bloccato una strada ne ha tuttavia aperta un’altra: le coincidenze della vita hanno tracciato per me una storia mai nemmeno immaginata. Mi sono scoperta imprenditrice e il mio essere donna in un contesto non favorevole alla leadership femminile ha paradossalmente rappresentato un vantaggio, perché ha offerto grande visibilità. A rimarcare la centralità della comunicazione [sorride, ndr]”.

Giuseppina Amarelli fu una figura chiave per l’azienda di famiglia anche per un’altra ‘felice intuizione’. Quale?
“Giuseppina non ebbe eredi diretti, per cui decise di lasciare la nuda proprietà del concio ai figli maschi nascituri dei suoi tre nipoti, che ne mantennero l’usufrutto. Uno stratagemma giuridico che garantì la continuità aziendale dal 1935 agli anni ‘90, quando morì mio suocero Giuseppe. Questo fu possibile grazie a un solido passaggio generazionale sì di competenze, ma soprattutto di valori, quelli che ci rendono forti ancora oggi. In primis quello del rispetto per le naturali inclinazioni dei familiari coinvolti in azienda: nella gestione del concio Giuseppina si affiancò da subito i tre nipoti, dando a ciascuno lo spazio necessario per ritagliarsi i propri compiti su misura dei talenti che possedevano”.
E gli altri?
“Sicuramente il rispetto per i lavoratori e il legame con il territorio, un valore che non si dimentica anche se i propri talenti si decide di coltivarli altrove. E che tramandiamo anche ai bambini. Ricordo mio figlio, all’epoca aveva circa 8 anni: lasciando il suo nome per prenotare l’unico campo da tennis della zona si definì ‘l’Amarelli, il figlio della fabbrica’. Un appellativo che mi fa sorridere tuttora”.

Oggi i giovani sembrano allontanarsi dalle proprie radici…
“Viaggiano molto più di un tempo, studiano all’estero e chissà quali scelte intraprenderanno. Il contesto attuale non è semplice per le imprese familiari [se il 30% sopravvive al fondatore, solo il 13% arriva alla terza generazione e appena il 4% approda alla quarta, secondo i dati del Family Firm Institute, ndr], ma la chiave sta nella formazione. Sia teorica (mio nipote Fortunato Amarelli, oggi amministratore delegato dell’azienda, ha intrapreso un percorso universitario apposito) che pratica. Farli entrare precocemente nell’impresa rende possibile la convivenza tra generazioni diverse, con risvolti benefici per il business: l’impavidità dei più giovani è mitigata dalla prudenza dei più esperti, e viceversa”.
Cos’altro agevola la longevità, oltre alla lungimiranza?
“Il fare rete, nel territorio d’origine e non solo. Penso a Les Hénokiens, l’associazione fondata nel 1981 che riunisce 56 imprese familiari attive da più di 200 anni, di cui ben 14 italiane [Amarelli Mengano ne è stata Presidente dal 2001 al 2005, ndr], la cui missione è promuovere il modello di business familiare come valida alternativa alle multinazionali. In Italia abbiamo Aidaf per quanto riguarda la cultura imprenditoriale, ma anche le reti di Museimpresa e di Adsi per il patrimonio archivistico e storico-artistico delle aziende. Queste associazioni mettono a fattor comune esperienze diverse e ci incoraggiano a restare aggiornati, formando noi e i nostri eredi”.

L’obiettivo è anche quello di supportare le imprese familiari all’atto del passaggio generazionale. Vi è un segreto per effettuarne uno efficace?
“La scomparsa prematura di mio cognato ci ha posti di fronte a un trauma che non avrebbe più dovuto ripresentarsi, a prescindere dalle circostanze. Per questo abbiamo intrapreso fin da subito una successione meditata, cercando tra i nostri eredi chi avesse passione e competenze, ma soprattutto volontà, e che desiderasse far crescere i propri talenti all’interno dell’azienda. Se esiste, forse il segreto è impiegare bene il tempo a disposizione. E avere il coraggio di affidarsi a manager preparati qualora all’interno della famiglia non si individuassero le persone adatte”.
A Giorgio Amarelli è dedicato il vostro museo d’impresa. Dal desiderio di chi nasce e qual è il suo obiettivo?
“Il museo fu una visione di mio cognato. Dopo la sua morte, mio marito Franco Amarelli, professore di diritto romano, mise a disposizione le proprie competenze nel portare a termine il sogno di un museo che raccontasse la liquirizia e la storia del concio Amarelli, per rafforzare ancor più il legame che le radici di questa pianta avevano intrecciato tra la nostra famiglia e il territorio d’origine. Fin dalla sua inaugurazione nel 2001, il museo ha rappresentato un motore di sviluppo sia per l’azienda che per la società: dà voce alla nostra storia e dimostra a chi lo visita [40mila visitatori l’anno, in primis bambini e ragazzi, ndr] che fare impresa in Calabria è possibile anche in un tessuto economico non vocato all’industria. Pur rappresentando un investimento considerevole per qualsiasi azienda, un museo d’impresa costituisce un asset strategico per l’intero sistema Italia: racconta il genio di questo paese facendo leva sulle sue attrattive più forti, il turismo e la cultura”.

Nelle famiglie i nomi ricorrono. A una terza Giuseppina Amarelli alla guida dell’impresa di famiglia, che insegnamento vorrebbe lasciare?
“Le direi di cominciare a prepararsi molto giovane. Di studiare non per forza materie mirate, ma di costruirsi un metodo con cui affrontare qualsiasi problematica. Di non seguire le chiacchiere che sminuiscono noi donne, perché siamo uguali all’altra metà del cielo. Di perseguire la sua autonomia attraverso il lavoro, perché l’indipendenza è fondamentale sotto tutti i punti di vista: non solo di testa, ma anche di tasca”.

In copertina: la scatoletta storica della Liquirizia Amarelli in una foto di Gabriele Tolisano. Tutte le foto presenti in questo articolo sono su gentile concessione della Amarelli Fabbrica di Liquirizia e del Museo della Liquirizia Giorgio Amarelli.