“Un uso del debito virtuoso da parte delle imprese, ma poco diversificato e ancora affetto da una sorta di mono cultura bancaria che rende le imprese più vulnerabili dal punto di vista della dipendenza delle fonti di finanziamento”. Inizia così Andrea Resti, professore di economia degli intermediari creditizi all’Università Bocconi e advisor sulla vigilanza bancaria, Parlamento Europeo, a tracciare il quadro della situazione delle pmi italiane rispetto a quella degli altri Paesi europei in occasione della conferenza “Il risparmio si fa impresa” organizzata al Salone del Risparmio 2024 (Sdr24).
Analizzando la struttura delle passività verso terzi delle imprese, i prestiti bancari incidono per le imprese italiane significativamente di più di quanto non accada negli altri Paesi dell’Eurozona, come la Francia, la Spagna o la Germania.
Questa è la situazione per le imprese non finanziarie nel loro complesso, ma l’andamento è particolarmente accentuato se ci concentriamo sulle pmi. Per le piccole e medie imprese, infatti, il problema è duplice: da un lato c’è una elevata dipendenza dal credito bancario, dall’altro i requisiti per poter accedere al credito bancario sono più elevati, quindi più sfidanti e stringenti.
Posizione finanziaria delle piccole e medie imprese
Per analizzare la situazione delle nostre pmi è utile prendere due indici finanziari che sono legati alla concessione di credito e che vengono analizzati dalle banche per decidere se prestare o meno soldi a una impresa.
“Il rapporto tra debito finanziario e capitale azionario delle pmi è su livelli molto più virtuosi rispetto alle altre imprese. Stando ai dati Cerved siamo su livelli sotto al 60% quando invece le altre imprese finanziarie, che non sono pmi, superano l’unità – ha spiegato Resti – Anche se guardiamo il rapporto tra il debito finanziario e l’ebitda, emerge come le pmi siano vincolate a indicatori più virtuosi e quindi abbiano più difficoltà di accesso al credito. Se infatti il debito finanziario può essere 4,5 volte l’ebitda per le imprese grandi, mediamente è meno di 3 volte l’ebitda per le piccole e medie imprese”.
Il motivo?
Il sistema creditizio pensa che le pmi, anche a causa di un livello di eterogeneità molto più forte e di una diversificazione più limitata, siano più rischiose delle grandi imprese. C’è quindi una difficoltà di accesso al credito, intesa come necessità di dimostrare indicatori più virtuosi e una forte dipendenza dal credito bancario.
Imprese e strumenti alternativi di capitali: oltre le banche
Com’è possibile estendere allora il ventaglio dei finanziatori delle imprese al di là del canale bancario?
“Io credo che gli strumenti per arrivare a questa maggiore diversificazione siano sostanzialmente due: da un lato, ridurre il rischio del finanziamento alle pmi, acquisendo delle garanzie personali o reali; dall’altro, collocarsi nello spazio rischio/rendimento su una combinazione superiore, quindi accettare un maggiore rischio in cambio di un alpha (un rendimento aggiuntivo) più elevato”, ha risposto Resti che ha indicato, nel primo caso, tra gli strumenti, le garanzie pubbliche, i receivables (ossia i pezzi di carta a cui appoggiare crediti di imposta o fatture per fare factoring etc) e il mercato del leasing, a cui le pmi in Italia fanno ricorso molto meno rispetto a quello che accade in altri paesi europei. Mentre nel secondo caso, Resti ha fatto riferimento a fondi di debito, piattaforme di crowdfunding e fondi di private equity.
I fondi di debito in Italia
In particolare, per quanto riguarda i fondi di debito, questi nel 2022 hanno realizzato 1,1 miliardi di euro di raccolta ed è stata una raccolta quasi interamente istituzionale (fondi pensione, fondi di fondi, assicurazioni e banche). “Una curiosità nei dati 2021, gli investitori privati e i family office assorbivano circa un quarto della raccolta, mentre nei dati del 2022 la quota è scesa al 2%”, ha fatto notare Resti, che attribuisce questo trend al fatto che quando hai un settore molto giovane che cresce a ritmi elevati, un anno con l’altro, un paio di operazioni possono scombinare l’intera statistica. Però è interessante che ci sia stata nel 2021 un’apertura verso questo mercato dal private banking alle grandi ricchezze, tendenza però che non si è consolidato l’anno successivo.
Se si passa ad analizzare altre voci, gli investimenti nel 2022 sono stati circa 3,2 miliardi, di cui mezzo miliardo a realtà medio piccole. Inoltre, circa la metà delle società target ha meno di 250 dipendenti e il 43% fattura meno di 50 milioni. E ancora spesso i fondi di debito intervengono insieme a fondi di private equity. “Stiamo parlando però di una componente ancora marginale se confrontata con i 690 miliardi di prestiti bancario a imprese non finanziarie”, ha dichiarato Resti, che ha concluso dicendo: “E se le banche avessero un modello di business superiore (difficile da scalfire, ndr)?”.
La conferenza è poi proseguita con una tavola rotonda in cui Andrea Buragina (Mediolanum Gestione fondi sgr) e Mauro Sbroggiò (Finint Investments) hanno discusso di modelli di selezione e di modalità di gestione dei fondi, mentre Bruno Conterno (Nice) e Josef Mastragostino (Tinexta) hanno illustrato le proprie esperienze e parlato del supporto ricevuto per i propri piani di crescia.