“Tutti conoscevano già Zlatan prima di questo Festival. E allora perché è venuto qui? È venuto perché gli piacciono le sfide, l’adrenalina e crescere. Se non sfidi te stesso non puoi crescere.
Quando scendi in campo puoi vincere o puoi perdere. Io ho giocato 945 partite: ne ho vinte tante, ma non tutte. Ho vinto 11 scudetti, ma ne ho anche perso qualcuno. Ho vinto tante Coppe, ma ne ho anche perse qualcuna. Sono Zlatan anche se non ho vinto tutte le partite.
Sono Zlatan quando vinco e quando perdo. Ho fatto più di 500 gol, ne ho anche sbagliato qualcuno. Qualche rigore è andato male, ma il fallimento non è il contrario del successo: è una parte del successo.
Fare niente è il più grande sbaglio che puoi fare”.
L’importante è dare il giusto valore al fallimento.
Ci sono culture per cui fallire è disonorevole, altre per cui invece fa parte di ogni sfida.
Prendiamo ad esempio il contesto giapponese: nel paese del Sol levante fallire è assolutamente vergognoso. Al punto che qualche anno fa saltò alla ribalta nella cronaca dei giornali la notizia di quel macchinista di treno che, verbalmente aggredito dai passeggeri a causa di un ritardo di 20 minuti, aveva tentato di togliersi la vita. La colpa di quel ritardo non era sua ma, ironia della sorte, era dovuta al suicidio di un’anziana signora sui binari della tratta coperta da quel macchinista. Nel paese nipponico i disservizi e ritardi non sono tollerati e la puntualità dei treni si misura sui secondi. Figuriamoci che fallimento abbia potuto essere un ritardo di 20 minuti!
Ma se giriamo il mappamondo e guardiamo all’altra parte del globo, ci accorgeremmo che negli Stati Uniti la percezione del fallimento è tutt’altra. Nella patria dei “self-made-men”, il fallimento è l’ingrediente che sta alla base del successo sociale e professionale dovuto esclusivamente alla propria forza di volontà e spirito di sacrificio.
Addirittura, molti imprenditori americani di successo iniziano a raccontare la loro storia aziendale partendo dal loro più grande insuccesso. E i fallimenti sono riportati anche nei loro curriculum o nelle loro biografie.
Pensiamo a Steve Job, che è riuscito a farsi licenziare dall’azienda che lui stesso aveva fondato. Se non è fallimento questo… Ma proprio da quel momento, la sua carriera ha preso un’altra svolta e lo ha portato a creare quello che oggi noi tutti sappiamo.
In America, più hai fallito, più hai accumulato esperienza. I fallimenti fanno capire quanta strada hai percorso, quante volte ti sei rialzato, quanto ti sei migliorato, fino a eccellere in quello che fai o in quello che offri.
Si conta che Elon Musk, il fondatore di Tesla, SpaceX e Solar City, abbia fallito almeno 15 volte con le sue aziende. Forse il fallimento che ha fatto più “fragore” (in tutti i sensi) è stata l’esplosione di un razzo durante le prove di SpaceX, la società aerospaziale specializzata nella fornitura di beni (soprattutto satelliti) nello spazio. Ma anche con le sue auto elettriche non è andata subito come desiderato. I primi modelli Tesla avevano problemi di performance, una bassa autonomia, batterie pesantissime e lente a ricaricarsi e una serie di altri problemi a chip, microchip e quant’altro. Musk non ha mai smesso di credere nell’obiettivo di creare un’auto elettrica, consapevole della necessità di rendere un po’ più green il nostro pianeta. E alla fine è uscito fuori il Model 3 (erede di TeslaX e Roadster) che, solo nel 2020, ha venduto oltre 365mila esemplari, il triplo del secondo modello nella classifica delle auto elettriche più vendute al mondo (l’utilitaria cinese Wuling HongGuang Mini EV, 120.000 esemplari venduti).
Fallire dunque non è un male, purché si interpreti il momento del fallimento come opportunità e non come sconfitta dal verdetto inappellabile. Perché se alla base del tuo agire c’è un’idea in cui credi e ci sono elementi oggettivi (e non solo quelli soggettivi), prima o poi la strada la troverai.
Come fallire brillantemente, dunque?
Per prima cosa, riconoscere che il fallimento non è definitivo. Si perde una battaglia, non la guerra. Se la delusione per non essere riusciti in quello che si voleva porta emozioni negative, è bene riconoscerle e osservale, senza giudizio. E poi lasciarle andare: perché trattenerle non porterà da nessuna parte.
Molte persone si chiedono: “Perché ho fallito?”. Questa domanda è orientata al passato e può funzionare solo in un primo momento, per comprendere quanto accaduto. Molti però si fermano a questa domanda e si chiudono nei sensi di colpa.
Invece, per fallire brillantemente, occorre fare a se stessi una seconda tipologia di domande: “Come posso migliorare?”; “Cosa ho imparato?”; “Come posso raggiungere l’obiettivo in modo diverso?”. Queste domande sono orientate al futuro e all’azione. È questa tipologia che davvero farà imparare dagli errori e li renderà utili al successo.