L’assegnazione di personale dipendente all’estero può comportare implicazioni di notevole complessità dal punto di vista della gestione delle risorse umane
Prima di affidare un incarico internazionale ad un dipendente, è opportuno prestare attenzione ai numerosi aspetti che vengono in rilievo e che involgono tanto la fase di selezione del personale e del rimpatrio quanto gli aspetti previdenziali, contrattuali e fiscali
Ebbene, al centro del processo di internazionalizzazione delle imprese c’è la figura dell’espatriato. È il lavoratore dipendente espatriato, infatti, che permette di trasferire competenze da una struttura all’altra. Ed è sempre l’espatriato che favorisce la capacità di una impresa di competere su scala globale, aumentando la propria quota di mercato o il numero di clienti.
Dal punto di vista strategico, pianificare gli aspetti organizzativi legati all’assunzione e alla gestione del personale che si vuole coinvolgere nella missione è di estrema importanza.
In questo senso, le aziende, al fine di gestire al meglio un dipendente che riceve un incarico internazionale, devono soffermarsi in prima battuta sugli obiettivi che intendono raggiungere e, successivamente, sul processo che porterà all’espatrio. Processo suddivisibile, in via generale, in tre fasi: selezione del personale da espatriare, formazione del dipendente e rimpatrio.
Il criterio primario che deve guidare l’azienda che intende affidare incarichi internazionali è quello che concerne la valutazione delle competenze tecniche del dipendente e della condotta tenuta all’interno dell’ambiente lavorativo.
Valutare l’esperienza pregressa del candidato permette, infatti, di saggiare la sua affidabilità e pronosticare – in termini indicativi – le performance che riuscirà a garantire una volta all’estero.
Una volta che è stato individuato il soggetto ritenuto adatto alla missione, è essenziale investire sulla formazione del dipendente. La formazione è la chiave per raggiungere gli obiettivi aziendali e, allo stesso tempo, per far sì che il dipendente una volta all’estero riesca, in maniera efficace, a diffondere e condividere la cultura aziendale, anche in vista del potenziale network che lo stesso soggetto andrà a creare una volta fuori dai confini nazionali.
Infine, occorre non sottovalutare la fase di rientro. L’abbandono dell’azienda da parte dell’espatriato, una volta finita la missione, non è inusuale e può dare vita a costi rilevanti (diretti e indiretti), correlati alla necessità di sopperire ad una mancanza improvvisa di personale esperto. In questi termini, prima della conclusione del periodo svolto all’estero è opportuno valutare un piano di rimpatrio, al fine di garantire al dipendente che l’esperienza fatta avrà ripercussioni positive sulla carriera.
Sarà necessario concentrarsi dapprima sulla scelta della legge applicabile.
Nel merito, la scelta di applicare al contratto di lavoro la legge italiana rappresenta il modo per assicurare al lavoratore espatriato il mantenimento delle tutele previdenziali che l’ordinamento italiano garantisce ai lavoratori che operano entro i confini nazionali.
In secondo luogo, occorrerà prestare attenzione alla tipologia di contratto. Ad esempio, la scelta di prediligere la forma di lavoro autonomo oppure subordinato, influisce sulla programmazione dell’attività da compiere.
L’invio all’estero, all’interno dell’Ue, del personale dipendente italiano non richiede particolari autorizzazioni amministrative o permessi stante il fatto che, se il lavoratore da mandare all’estero è cittadino italiano, ai sensi dei principi Ue che governano la materia, potrà godere all’estero degli stessi diritti di cui avrebbe goduto se avesse continuato a lavorare in Italia.
Anche dal punto di vista previdenziale non si segnalano, sempre in ambito europeo, particolari criticità.
Se, ad esempio, il lavoratore è distaccato presso uno Stato Ue, continuerà a veder applicato il regime previdenziale e contributivo del suo paese di origine. Per la durata del distacco e in deroga al principio di territorialità.
Un altro aspetto che deve essere preso in considerazione è quello della tassazione e, più in particolare, è quello che riferisce alle politiche cd. di neutralità fiscale.
Il lavoratore assegnato all’estero, secondo le politiche cd. di tax protection, non deve subire alcun danno economico relativo alla stessa assegnazione. Per tale ragione, l’onere fiscale cui il dipendente distaccato all’estero sarà tenuto, non potrà essere superiore a quello che, parimenti, avrebbe sostenuto nel paese d’origine se avesse continuato a lavorare in Italia.
Tuttalpiù, sarà possibile per il lavoratore distaccato all’estero godere dell’eventuale minor carico fiscale applicabile nel paese di destinazione.
A livello operativo, all’inizio del periodo di attività lavorativa prestata all’estero, e così per ogni anno fiscale, il datore di lavoro dovrà effettuare una ritenuta figurativa (hypothetical tax) delle imposte che avrebbe versato in Italia.
L’imponibile fiscale sul quale deve essere calcolata l’imposta ipotetica, deve tenere conto solo degli elementi retributivi che il lavoratore avrebbe percepito se non fosse andato all’estero.
Infine, sono fuori dalla base imponibile ai fini del calcolo dell’imposta ipotetica tutti gli elementi retributivi correlati alla missione all’estero, quali ad esempio i corsi di lingua, l’alloggio, le indennità da assegnazione.