– Ti è piaciuta oggi la scuola?
– Riordiniamo la camera?
– Vieni a tavola?
– Andiamo al parco giochi?
– Iniziamo a fare i compiti?
Sappiamo tutti che dopo “mamma” e “papà”, la parola più gettonata è … “No!”. Con parecchia frustrazione da parte dei genitori. Il “no” arriva ovviamente solo se abbiamo fatto una domanda chiusa.
Passando dal campo pedagogico a quello imprenditoriale, il problema della domanda chiusa è sempre lo stesso: non ci fa ottenere le risposte che vorremmo o le informazioni che ci servono perché nella domanda stessa non c’è altra possibilità se non di rispondere affermativamente o negativamente. E nel 50% dei casi, non otteniamo la risposta desiderata… ma un bel “no”.
– Mi conferma l’appuntamento?
– Posso procedere con l’ordine?
– Posso contattarla telefonicamente?
– La disturbo?
Riconoscere una domanda chiusa è molto semplice. Grammaticalmente, essa è costruita con un verbo all’inizio. E, ovviamente, prevede una risposta sì/no, bianco/nero, positivo/negativo.
Al contrario, una domanda aperta inizia con un avverbio (Come? Perché? Quando?) e stimola l’interlocutore a offrire una risposta che non è mai binaria, ma che abbraccia ogni possibilità.
Istintivamente, cerchiamo di fare più domande chiuse che aperte perché ci sembra più facile gestire le possibili risposte, in quanto sono semplicemente due: un sistema binario come per i computer. Il nostro cervello, di fronte a due sole opzioni, è molto più rilassato rispetto ad avere tante sfumature da ascoltare. È meno preoccupato dal dover gestire le diverse risposte che arrivano. Farsi rispondere “sì” o “no” ci semplifica la vita, perché pensiamo in tal modo di poter gestire più facilmente le risposte, in quanto sono soltanto due.
L’aspetto curioso è che il nostro cervello ci spinge a ragionare in modo binario come un computer, pur avendo la capacità di interpretare milioni di sfumature. Come ci insegnano le neuroscienze, questo accade perché la nostra mente cerca sempre di risparmiare energia e di rimanere nella sua zona di comfort. Infatti la nostra mente consuma meno energia nell’elaborare una risposta duale (sì/no) piuttosto che una elaborata. Nella nostra vita ci siamo quindi modellati a rimanere nella nostra zona di comfort, pilotati dall’inconsapevole desiderio del nostro cervello di gestire nel modo più semplice e meno dispendioso energeticamente la comunicazione.
Abbiamo appreso la modalità comunicativa delle domande chiuse già dall’infanzia, quando i nostri genitori, per aiutarci ad esprimerci, ci facevano loro stessi delle domande chiuse: – Hai fame? – Hai sete?
È quindi abbastanza chiaro che siamo stati allenati per una vita ad ascoltare domande chiuse ed è quindi altrettanto ovvio che poi ci venga spontaneo di replicare questo modello.
Gli svantaggi delle domande chiuse
Le domande chiuse sono poco efficaci perché ci permettono di arrivare all’obiettivo solo attraverso un percorso a zig-zag, anziché una linea retta. Ci fanno impiegare molto tempo ed energia. Immaginiamo due scenari: il primo è quello in cui si cerca di raccogliere le informazioni su un obiettivo da raggiungere attraverso una serie di domande chiuse; il secondo è quello in cui lo fai attraverso una sola domanda aperta.
Per la sua natura “duale”, dopo una domanda chiusa si otterrà un’informazione per volta. Inoltre, se l’obiettivo è ottenere una risposta positiva per convincere il cliente a sposare una determinata prospettiva, il “sì” arriverà solo nel 50% delle risposte. E questo è un bel rischio!
Un altro aspetto da non sottovalutare è che le domande chiuse usate per raccogliere informazioni risultano fastidiose all’interlocutore. Chi si diverte nel rispondere a un questionario per una ricerca demografica?
Un ulteriore effetto negativo di una domanda chiusa è che non fa generare nell’altro una riflessione significativa come quella generata dalla domanda aperta. E questo lo fa sentire poco coinvolto nella comunicazione.
Controllo e retorica: le due eccezioni positive
Finora abbiamo parlato “male” delle domande chiuse. Le domande chiuse hanno in due soli casi un valido utilizzo: quando vogliamo controllare. Ad esempio, vogliamo verificare che un compito sia stato eseguito: – Hai fatto il bonifico? Hai acceso il computer?
E quando si vuole fare della retorica, del tipo: – Che caldo oggi! Non sarebbe bello bere qualcosa di fresco?
Nel caso in cui si vuole controllare, la domanda chiusa serve solo avere un feedback (vogliamo sapere se il bonifico è stato fatto o meno). E se la risposta è no, sarebbe comunque bene fare una domanda aperta, la quale invita la persona all’azione (cioè a fare quello che ancora non ha fatto) senza pressione, ma con ragionevolezza.
Quando si fa una domanda retorica, invece, si scommette sul fatto (anzi: si è praticamente certi) che l’interlocutore risponderà che è d’accordo con noi. Altrimenti diventano delle domande “kamikaze”.
Seguendo quest’ultimo utilizzo, le domande chiuse retoriche sono utili per applicare la “Tecnica della raccolta dei sì”. È una tecnica che consiste nel fare tante domande chiuse retoriche orientate a ottenere molte risposte positive. In tal modo si incrementa la fiducia della persona che sia ha di fronte, perché rispondendo sempre “sì”, lei percepirà di essere in una situazione amichevole e di conseguenza sarà più propensa all’ascolto e alla collaborazione. Attenzione, però: se è vero questo effetto, è ovvio che la raccolta di tanti “no” porta inevitabilmente la persona a chiudersi nei nostri confronti.
Pertanto, le domande chiuse vanno usate con moderazione e solo quando si è sicuri di rientrare nelle due categorie sopra citate. In tutti gli altri contesti, le domande chiuse sono veramente poco efficaci o addirittura dannose.