Da salutare certamente con favore la decisione dell’Agenzia delle entrate di rendere pubblico un recentissimo interpello in materia di criptovalute. Si tratta della risposta n. 433 del 24 agosto scorso, confermativa circa il trattamento fiscale dei redditi rivenienti da compravendita di “valute digitali” (equiparate, come noto, a valuta estera tradizionale) e innovativa circa la tassazione dei redditi relativi all’attività di “staking” (validazione delle transazioni su blockchain alternativa al metodo “proof-of-work”, di per sé energivoro e perciò fortemente criticato – tassazione peraltro già oggetto di commento su questa testata da parte di chi scrive).
Senza ritornare sulla questione circa la categoria di reddito nella quale inquadrare i proventi da “staking” percepiti da una persona fisica non imprenditore (reddito di capitale o reddito diverso – l’Agenzia propende per la prima), meritano una sottolineatura due importanti aspetti “procedurali” affrontati dall’amministrazione finanziaria, uno dei quali passibile di notevoli ricadute in ambito sostanziale.
Innanzitutto, detta persona fisica non deve indicare nel famigerato quadro Rw (relativo al monitoraggio fiscale degli investimenti all’estero e/o delle attività estere di natura finanziaria) le criptovalute detenute (né assoggettarle a Ivafe), sempre che il “wallet” (“portafoglio” di appoggio) sia attivo presso una società italiana – sarà infatti quest’ultima a fungere da “sentinella” fiscale in qualità di sostituto d’imposta.
Il problema, e questo è il secondo aspetto, sta nel titolo della ritenuta che detto sostituto è chiamato ad operare sui redditi (secondo l’Agenzia, di capitale) derivanti dall’attività di “staking”: titolo di acconto o titolo di imposta? La differenza è nota: nel primo caso i redditi in questione concorrono a formare il reddito complessivo, soggetto ad aliquote Irpef progressive; nel secondo la tassazione si esaurisce in una trattenuta alla fonte del 26%, senza peraltro alcun obbligo dichiarativo; orbene, l’Agenzia chiarisce trattarsi di ritenuta a titolo d’imposta.
Tuttavia, come già puntualmente rilevato dalla stampa specializzata (Marco Piazza sul Sole-24 Ore del 26 agosto), l’amministrazione finanziaria individua (correttamente) nel comma 5 dell’articolo 26 (del Dpr n. 600/73) la fonte normativa dell’obbligo di sostituzione (i.e. di operare una ritenuta su tali redditi), considerata (giustamente) di “chiusura” (invero, non pare possibile identificare altre norme che impongano una ritenuta alla fonte su tali tipi di redditi di capitale): il punto è che si tratta di una ritenuta che la norma stessa stabilisce espressamente essere a titolo d’acconto per i soggetti residenti, e d’imposta per i soggetti non residenti (in aperta contraddizione, quindi, con le indicazioni espresse dell’Agenzia delle entrate nell’interpello in questione).
Viene peraltro il dubbio che l’interpellante sia in realtà un soggetto non residente (il testo dell’interpello non lo specifica), ma in tal caso il tema del monitoraggio fiscale (non obbligatorio per i soggetti non residenti) non sarebbe stato sollevato.
Fortunatamente, la stessa Agenzia (forse proprio grazie al commento sopra richiamato) ha emanato, due giorni dopo, un nuovo interpello (n. 437), che già nel titolo anticipa il contenuto: “Rettifica della risposta n. 433 del 24 agosto 2022”, dove, semplicemente, viene riproposto lo stesso testo della risposta rettificata, salvo correggere il titolo della ritenuta (da “imposta” in “acconto”), con conseguente obbligo di includere i relativi proventi nella dichiarazione dei redditi.
Una svista agostana, insomma, subito corretta: resta il fatto che la tassazione dei redditi da “staking” con aliquote Irpef progressive non incentiva certamente lo sviluppo di questo tipo di validazione su blockchain, e testimonia ancora una volta la necessità di un intervento legislativo ad hoc sull’intera materia degli asset digitali.