Guardiamo ad esempio i negozi e punti vendita operanti nei centri commerciali: per costoro gli ingressi scaglionati ed i nuovi orari di apertura e chiusura oltre che la mancata riapertura di molti operatori sopraffatti dal covid-19, sono potenzialmente causa di un grave (se non irreparabile) pregiudizio.
Quali sono quindi gli strumenti giuridici posti a tutela dell’imprenditore danneggiato?
In via teorica, come da più parti rilevato, l’imprenditore dovrebbe poter ricorrere all’azione giudiziale di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, qualora sussista la eccessiva onerosità della propria prestazione (nel caso di specie il pagamento del canone di locazione o affitto) direttamente determinata dal verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili – i.e. l’epidemia sanitaria.
Tuttavia, come statuito di recente dal Tribunale di Pisa, non basta lamentarsi di essere stati pregiudicati dall’epidemia sanitaria ma bisogna provare il concreto ed effettivo peggioramento della propria situazione patrimoniale tale da precludere, in quanto eccessivamente oneroso, il pagamento del canone concordato. Per tornare agli operatori nei centri commerciali, bisognerebbe offrire la prova – non proprio di pronta soluzione – che il rilevante calo di fatturato sia diretta conseguenza della ridotta attività del centro commerciale, a sua volta determinata dalla pandemia.
In alternativa, seppure per i soli contratti di locazione di immobile ad uso non commerciale (e non di affitto di azienda), l’imprenditore potrebbe ricorrere al recesso espressamente previsto dall’art. 27, ultimo comma, della l. 392/1978.
Tuttavia, tanto in caso di recesso che di risoluzione l’imprenditore potrebbe solo agire per la definitiva cessazione del contratto e non per la mera riduzione dei canoni di locazione, che invece resta una facoltà esclusivamente del locatore nella disciplina della risoluzione ai sensi dell’art. 1467 del nostro codice civile.
Né tanto meno l’esigenza di modifica di tutti quei contratti sperequati, travolti dal covid, trova conforto nella recente decretazione di urgenza.
Ed allora, come sempre in caso di assenza di una norma specifica, la risposta è nelle norme generali del nostro codice civile ed in particolare di quelle secondo cui i contratti (tutti) vanno interpretati ed eseguiti secondo buona fede e correttezza (artt. 1175, 1366 e 1375 del codice civile).
In applicazione di tali principi l’operatore che ha stipulato un contratto di locazione all’interno di un centro commerciale sul presupposto di una piena operatività di tale centro e di una conseguente visibilità (e avviamento) dovrebbe avere diritto ad una equa rinegoziazione del canone di locazione qualora le condizioni fattuali cambino in maniera rilevante (cd principio rebus sic stantibus) a seguito del Covid.
Come autorevolmente sostenuto di recente dalla Suprema Corte di Cassazione (nella Relazione dell’Ufficio del Massimario dell’8 luglio 2020 n. 56) “l’emergenza non si tampona demolendo il contratto” ma riconducendone ad equità le condizioni, poiché solo “la correttezza è suscettibile di assolvere, nel contesto dilaniato dalla pandemia, la funzione di salvaguardare il rapporto economico sottostante al contratto nel rispetto della pianificazione convenzionale”.
Si prospetta quindi un periodo intenso per i mediatori e negoziatori. Lo conferma anche l’Agenzia delle Entrante, che prevedendo ciò ha comunicato l’esenzione dall’imposta di registro e di bollo della registrazione dell’atto con il quale le parti dispongono esclusivamente la riduzione del canone locativo e ha altresì aggiunto che dal 1° settembre 2020, per comunicare tale rinegoziazione, bisogna esclusivamente utilizzare il modello RLI.