Carried interest, reddito finanziario o reddito da lavoro?

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Le più recenti pronunce dell’Agenzia delle entrate in merito alla complessa questione del trattamento fiscale dei carried interest

Con alcune recenti risposte ad interpello, l’Agenzia delle entrate è tornata a pronunciarsi sulla complessa questione del trattamento fiscale dei carried interest ed in particolare sui requisiti necessari per ascrivere questa tipologia di proventi alla categoria dei redditi di natura finanziaria, anziché a quella dei redditi da lavoro. Il tema riveste notevole importanza pratica: la qualificazione di tali proventi come redditi finanziari, anziché come redditi da lavoro, infatti, determina la sottrazione degli stessi alla tassazione progressiva Irpef altrimenti prevista e l’applicazione di una tassazione “flat” al 26%, sotto forma di imposta sostitutiva (nel caso di redditi diversi) o di ritenuta a titolo d’imposta (nel caso di redditi di capitale).


Cosa si intende per “carried interest”

Per “carried interest” si intende una particolare forma di remunerazione, tipicamente riconosciuta agli amministratori e/o ai dipendenti dei fondi di investimento, costituita dal maggior rendimento delle azioni o quote loro assegnate e finalizzata ad allineare gli interessi ed i rischi degli stessi amministratori e dipendenti con quelli dei restanti investitori. 


Nel corso del tempo, la qualificazione fiscale di detti proventi (cosiddetti “diritti patrimoniali rafforzati”) ha dato luogo a numerosi dubbi interpretativi, in considerazione del duplice ruolo (di dipendente o amministratore e, al contempo, di azionista) rivestito dal titolare dello strumento finanziario, con conseguente interrogativo circa la riconducibilità degli stessi proventi alla categoria dei redditi da lavoro dipendente, assimilato o autonomo da un lato – soggetti a tassazione progressiva con aliquota fino al 43%, oltre che alle addizionali – o, invece, a quella di redditi di capitale dall’altra, in quanto «utili derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di società ed enti» ai sensi dell'articolo 44, comma 1, lettera e), del Tuir) – con tassazione al 26%. 


A tale ultimo proposito, infatti, si ricorda che il principio di onnicomprensività di cui all’articolo 51 del Turi prevede l’attrazione di tutti i redditi percepiti dal dipendente sotto la categoria del reddito da lavoro dipendente, indipendentemente dalla natura dei redditi medesimi ed anche se percepiti sotto forma di erogazioni liberali relative al rapporto di lavoro; lo stesso criterio, inoltre, si applica per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, compresi, ai sensi dell'articolo 50, comma 1, lett. c-bis), del Tuir, quelli percepiti «in relazione agli uffici di amministratore», a condizione che gli uffici o le collaborazioni «[...] non rientrino nell’oggetto dell’arte o professione di cui all’articolo 53, comma 1, concernente redditi di lavoro autonomo».


Il carried interest nella legislazione fiscale 

 Ora, proprio al fine di ridurre le incertezze qualificatorie sopra indicate e di avvicinare il quadro normativo italiano a quello di altri Paesi, nel 2017 è stato introdotto nel nostro ordinamento l’articolo 60, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, il quale, al ricorso di determinate condizioni, qualifica i carried interest come redditi di natura finanziaria. 


Più in particolare, l’articolo 60 appena citato reca una qualificazione ex lege dei carried interest come redditi di natura finanziaria laddove ricorrano congiuntamente i seguenti tre requisiti: 

 - (a) un “investimento minimo”, da parte del titolare del carried interest, nel fondo o nella società che emette lo strumento finanziario (investimento che, nello specifico, deve essere almeno pari all’1% dell’investimento complessivo effettuato dall’Oicr o all’1% del patrimonio netto della società);

- (b) la postergazione del carried interest rispetto ai diritti patrimoniali degli altri investitori, e cioè la maturazione del carried interest solo dopo che gli altri investitori abbiano percepito un ammontare (almeno) pari al capitale investito e ad un rendimento minimo previsto nello statuto o nel regolamento (cosiddetto “hurdle rate”); 

- (c) la previsione di un “holding period” e cioè l’obbligo di detenzione dello strumento finanziario per un periodo minimo di cinque anni o, se precedente, fino alla data in cui si verifica un evento che comporti un cambio di controllo a livello della società emittente o dell’Oicr. 


Nella valutazione del legislatore, infatti, la sussistenza congiunta dei tre requisiti garantisce un allineamento delle posizioni dei beneficiari di carried interest rispetto a quelle degli altri investitori, in termini di interesse alla remunerazione dell’investimento e di rischio di perdita del capitale investito. 


La mancanza di uno o più di tali requisiti, viceversa, comporta il riproporsi delle questioni interpretative sopra accennate e la conseguente necessità di procedere ad una valutazione concreta, case by case, della fattispecie, volta a determinare se, nella sostanza, il carried interest abbia una funzione remunerativa dell’attività lavorativa svolta dal titolare dello strumento finanziario o se, al contrario, esso rappresenti il frutto di un investimento di natura eminentemente finanziaria (in questi termini, cfr. anche l’Agenzia delle entrate, in circolare n. 25/E/2017).

I recenti interventi dell’Agenzia delle entrate 

A commento della disciplina de qua, l’Agenzia delle entrate ha emanato una prima circolare interpretativa (circolare n. 25/E/2017, già citata) ed una successiva serie di risposte ad interpello riferite a casi concreti, le più recenti delle quali saranno di seguito brevemente analizzate. 


La risposta n. 225/2022 affronta il caso di un piano di incentivazione offerto ad un manager, prevedente la sottoscrizione di un aumento di capitale pari all'1% del valore della società (quest’ultimo determinato sulla base di apposita perizia di stima), a fronte del ricevimento di una quota con diritti patrimoniali rafforzati (diritto a ricevere una remunerazione più che proporzionale rispetto all'investimento effettuato), da detenere per un periodo non inferiore a cinque anni. 


Nonostante la mancanza del requisito della postergazione, l’Agenzia ha confermato la natura di reddito finanziario del capital gain derivante dalla cessione della quota in parola, attribuendo specifico rilievo all’entità dell’investimento effettuato dal manager (sia in termini assoluti che in termini relativi e cioè considerando l’ammontare della parte fissa della retribuzione), idonea – secondo l’Agenzia – a garantire l'allineamento della posizione e degli interessi del manager stesso rispetto a quelli dei restanti investitori. 


Nella risposta n. 295/2022 viene invece affrontato il caso di un piano di incentivazione offerto ai manager di una società, inizialmente rispondente a tutti i requisiti previsti dal citato articolo 60 ma suscettibile, nel tempo, di perdere il requisito dell’investimento minimo da parte dei beneficiari e/o quello della postergazione (a causa, rispettivamente, dell’aumento del capitale sociale derivante dalla possibile conversione di un prestito obbligazionario emesso dalla società e della previsione di quotazione della società medesima). Anche rispetto alla fattispecie in commento, nonostante il possibile venir meno di due dei tre requisiti previsti dall’articolo 60, l’Agenzia ha ravvisato l'idoneità del piano ad allineare le posizioni dei manager a quelle dei restanti investitori (in termini di interessi e rischi dell’investimento), confermando pertanto la riconducibilità dei relativi proventi ai redditi di natura finanziaria. 


Ancora, nella risposta n. 311/2022, l’Agenzia ha esaminato i carried interest riservati ai manager di un fondo “feeder”, rispetto ai quali l’istante rappresentava la difficoltà di verificare il requisito dell’investimento minimo, alla luce delle regole di investimento previste dal regolamento del fondo: anche in tal caso, l’Agenzia ha qualificato i proventi in parola come redditi finanziari, sulla base di una valutazione complessiva della fattispecie (nello specifico, caratterizzata, inter alia, dalla mancanza di garanzie in ordine al rimborso del capitale investito, dall’assenza di clausole che ricollegassero gli eventuali extra-rendimenti allo svolgimento di un’attività lavorativa da parte dei beneficiari e dalla previsione di una retribuzione annua fissa spettante ai manager ritenuta allineata allo standard del settore). 


Infine, con la risposta n. 310/2022, l’Agenzia ha ritenuto integrato il requisito della postergazione in presenza di un meccanismo secondo cui, alla generalità degli investitori, sarebbe stato garantito un rendimento minimo, al di sotto del quale non sarebbe stato riconosciuto alcun extra-rendimento ai beneficiari dei carried interest.


Conclusioni 

Le recenti pronunce dell’Agenzia appaiono di estrema utilità per il contributo che le stesse offrono alla definizione dei percorsi argomentativi rilevanti per l’interpretazione delle diverse fattispecie concrete che possono interessare gli operatori del private equity. Esse, inoltre, approdano a conclusioni a nostro avviso condivisibili, in quanto conformi alla ratio ispiratrice della disciplina fiscale sopra richiamata. Preme dare atto, in particolare, dell’apertura con cui l’Agenzia esamina le casistiche, spesso complesse, che ormai connotano le forme di incentivazione offerte ai manager, con ciò allineandosi alla prassi e agli orientamenti fiscali delle maggiori piazze finanziarie internazionali.

Opinione personale dell’autore
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È partner dello studio legale Dentons, nella sede di Roma. Dottore commercialista e
revisore contabile, si occupa di fiscalità a 360°, pianificazione fiscale, tax ruling e
interpelli, private wealth management, fiscalità dei trust, piani di incentivazione, fiscalità
delle banche, delle assicurazioni e dei Ias/Ifrs Adopter. Segue procedimenti di voluntary
disclosure e patent box.

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