Il fattore umano della consulenza viene spesso dipinto solo per il suo lato positivo: la sicurezza che trasmette, la capacità di orientare le decisioni finanziarie con maggiore razionalità esterna. Un recente studio accademico pubblicato sul Journal of Banking & Finance, tuttavia, ha mostrato come l’umanità del consulente porti con sé anche un bagaglio di pregiudizi comportamentali (bias), che in alcuni casi si traducono in raccomandazioni non ottimali.
Non si tratta solo di conflitti di interesse nella vendita dei prodotti dettati da meccanismi di incentivo economico: si parla di questioni come la familiarità personale con determinate soluzioni e prodotti.
Capita, così, che i consulenti finanziari che personalmente hanno dei debiti risultino “meno inclini a raccomandare l’estinzione del debito per i propri clienti anche quando sarebbe la scelta ottimale”. Più in generale, i tre autori dello studio, condotto in Canada, hanno misurato come “i consulenti tendano a raccomandare più frequentemente prodotti che possiedono personalmente, che possiede il coniuge, o per i quali sono abilitati alla vendita”.
Il perimetro dell’indagine
Contrariamente ad altri studi critici sulle performance delle raccomandazioni finanziarie, questa indagine non ha coinvolto le reti di vendita bancarie, ma si è focalizzata esclusivamente su professionisti che detengono certificazioni di alto livello: 1.044 consulenti certificati (CFP®, QAFP™ o Pl. Fin.) in Canada. Si tratta del campione di consulenti più formati mai osservato in uno studio accademico.
“A differenza dei consulenti bancari tradizionali, i professionisti inclusi nel nostro campione offrono solitamente consulenza finanziaria su una varietà di ambiti che vanno ben oltre la semplice vendita di fondi comuni o titoli ai propri clienti”, affermano gli autori, “la qualità della consulenza fornita dai consulenti appartenenti a queste organizzazioni professionali dovrebbe quindi essere superiore a quella dei consulenti bancari generici analizzati nella letteratura”. Si tratta di quella che, nel gergo di molte reti bancarie italiane, viene considerata “consulenza evoluta”.
Quando la teoria economica incontra i limiti umani
La buona notizia? “Riscontriamo che, in media, i consulenti tendono a prendere decisioni ottimali”, ossia compatibili con la teoria economica. Per misurarlo, i tre autori hanno sottoposto ai consulenti una serie di scenari ipotetici (vignette) attorno a quattro grandi ambiti della consulenza finanziaria: risparmio per la pensione, gestione del patrimonio in fase di pensionamento e rischio di longevità, rischio di dover affrontare spese per l’assistenza a lungo termine, e scelte di investimento.
“Ogni scenario è stato progettato in modo da permetterci il pieno controllo sulle informazioni fornite ai consulenti. All’interno di ciascun caso, abbiamo modificato in modo casuale alcuni elementi chiave — come le caratteristiche del cliente o dei prodotti disponibili — per misurare come questi cambiamenti influenzino la raccomandazione fornita. In questo modo, è possibile interpretare con precisione gli effetti delle singole variabili, come se osservassimo cosa sarebbe successo in un ‘mondo alternativo’ in cui le condizioni fossero state diverse”.
Assieme alla buona qualità media riscontrata in questo campione particolarmente avanzato di pianificatori finanziari, il sistema di analisi ha fatto emergere anche alcune anomalie rilevanti.
Le anomalie che sorprendono
Ad esempio, si osserva una (piccola) probabilità che vengano raccomandate rendite vitalizie integrali a clienti in cattive condizioni di salute. E ancora, nel contesto dell’assicurazione per l’assistenza a lungo termine (long-term care), lo stato di salute del cliente non sembra influenzare la raccomandazione ricevuta; anche se questa polizza conviene poco se il cliente è già in cattive condizioni, alla luce dei maggiori costi sul premio. In generale, un cliente che ha problemi di salute dovrebbe evitare la rendita vitalizia integrale, che si rivela conveniente solo se si hanno motivi per presumere una vita più lunga della media.
Un’altra stranezza è data dal pregiudizio che un rendimento messo a segno da un fondo comune particolarmente alto sia di per sé indicativo di maggiore rischio. Di conseguenza, i planner raccomandano con minore probabilità fondi comuni che hanno tassi di ritorno superiori al 10%, preferendo quelli in area 5%. Eppure, negli scenari indicati nelle vignette, il livello di rischio dei primi fondi non era diverso: insomma, venivano raccomandati fondi con un profilo rischio/rendimento peggiore per una diffidenza pregiudizievole verso l’alto rendimento.
La remunerazione: i dati dicono che influenza la raccomandazione
L’evidenza dello studio mette in mostra come la presenza di una remunerazione sulla vendita di determinati prodotti aumenti le probabilità che vengano raccomandati. “Sebbene i consulenti tendano a evitare prodotti con commissioni elevate quando il conflitto di interesse è esplicitamente indicato nello scenario [a loro presentato nell’analisi], emergono comunque evidenze che mostrano una preferenza per fondi comuni ad alta commissione nei casi in cui sono abilitati alla vendita di quel prodotto”.
Inoltre, “i consulenti remunerati a commissione tendono a raccomandare i fondi comuni quando sono autorizzati a venderli”, a prescindere che siano o meno in possesso di quei prodotti nel loro portafoglio personale, “questo mette in luce come i meccanismi di remunerazione possano interagire direttamente con la qualità delle raccomandazioni fornite”.
Nello specifico, se un consulente è remunerato a commissione e ha la licenza per vendere fondi comuni, la probabilità che raccomandi un fondo comune aumenta di circa 11-12% rispetto a un consulente senza queste caratteristiche. Un risultato che gli autori definiscono come statisticamente significativo.
Il fatto che anche consulenti altamente qualificati, esterni al circuito bancario tradizionale e dotati delle certificazioni più prestigiose, risultino influenzati dalle modalità di remunerazione mette seriamente in discussione una tesi spesso sostenuta nel settore: che il modello di compenso non incida sulla qualità del servizio.