Come andarono le cose?
Agli inizi degli anni 2000 Blockbuster aveva più di 9mila negozi in tutto il mondo. Si diceva che ogni abitante degli Stati Uniti abitasse a meno di 10 minuti da un suo negozio.
La sua principale fonte di guadagno, contrariamente a quanto si possa pensare, non derivava dal noleggio di vhs o dvd, ma dalle penali inflitte ai clienti ritardatari nella consegna.
In una penale ci cascò anche Reed Hastings, co-fondatore, presidente del cda e delegato di Netflix. Nel 1997 portò in ritardo la videocassetta del film “Apollo 13” e, a causa della sua dimenticanza, si trovò sul conto un addebito di ben 40 dollari. Ai tempi, con quella cifra si andava al cinema tre volte.
Fatto sta che Hastings non la prese bene e decise che avrebbe inventato un sistema per cui tutto ciò non sarebbe stato possibile. E così, sfruttando l’online, inventò Netflix.
Tre anni dopo, era il 2000, Hastings non era ancora riuscito a far decollare la sua idea e si rivolse proprio al fondatore e ceo di Blockbuster, John Antioco. L’intento era quello di chiedere una fusione tra le due aziende. Netflix avrebbe offerto a Blockbuster una sinergia funzionale a coprire le mancanze di Blockbuster sul noleggio digitale. In cambio, chiedeva all’azienda di acquistare la sua startup per la cifra di 50 milioni di dollari. Un’inezia, per un colosso che ai tempi fatturava oltre 400 milioni di dollari.
Ma la banda larga non aveva ancora preso piede nella società mondiale e l’idea di un noleggio digitale anziché fisico era fin troppo innovativa per quegli anni. Sicché, alla richiesta di Hastings, ci fu il rifiuto quasi irriverente di Antioco: “Non funzionerà mai”, fu la sua risposta.
Nella sua autobiografia, ricordando quell’incontro, Hastings scrisse che quando si presentò all’appuntamento la sua automobile di allora valeva meno dei mocassini indossati da Antioco.
Dodici anni più tardi – siamo nel 2012 – Blockbuster fallì. E oggi Netflix è valutata oltre 170 miliardi di dollari.
La storia ci insegna che nessuna azienda è troppo grande da non fallire. E questo perché cambiano i tempi, cambia il modo di vivere e quindi mutano le esigenze delle persone, cambiano i problemi (e di conseguenza servono nuove soluzioni), cambiano le tecnologie disponibili. E così il mercato, che nasce proprio per soddisfare le richieste del pubblico, è altrettanto mutevole.
Questo ragionamento sembra lapalissiano, eppure tante aziende ci cascano: sono troppo sicure della loro posizione per non metterla abbastanza in discussione.
Basti pensare alla statunitense Motorola. Il primo cellulare degli ultraquarantenni di oggi era, molto probabilmente, della Motorola. Che fine ha fatto questa azienda? Non ha creduto nell’avvento dello smartphone (o forse ci hanno messo un po’ troppo tempo a crederci) ed è stata superata e surclassata da Apple e Samsung, che per prime hanno compreso le nuove potenzialità della telefonia mobile. Motorola ha dovuto così ripiegare sull’erogazione di altri servizi. Oggi il marchio per la telefonia è stato ceduto a Lenovo, mentre Motorola si dedica principalmente allo sviluppo di microprocessori e sistemi di telecomunicazione professionale.
E così, mentre Fujifilm, l’azienda competitor di Kodak, cominciò a sviluppare le sue fotocamere digitali e riuscì a sopravvivere al cambiamento tecnologico, Kodak annunciò la bancarotta in meno di un decennio. Riuscì da uscire dal fallimento con molta fatica reiventandosi una nicchia nel settore delle pellicole fotografiche professionali. Recentemente si è diversificata e si occupa anche di produzione di farmaci.
Un altro motivo per cui un’azienda non è infallibile è dettato dagli imprevisti.
Ikea poteva dirsi sicura di essere la meta preferita delle famiglie il sabato mattina. Nel 2018, i suoi negozi in tutto il mondo hanno avuto 957 milioni di visite fisiche. Finché… finché una pandemia globale ha costretto alla chiusura degli esercizi commerciali fisici. Ikea sopravviverà anche alla pandemia, perché ha saputo traferire la sua attività online. Nell’anno del covid-19, il suo sito ha ricevuto oltre 2,5 miliardi di visite.
“Non c’è nulla di più costante del cambiamento”, diceva il filosofo greco Eraclito. Questo dovrebbe essere il mantra nella testa di ogni grande imprenditore. Perché in ogni business, così come nella vita, un’azienda può avere un successo astrale, ma anche una caduta inaspettata se non ci si prepara il cammino.
Come fare a non cadere nella trappola di credersi troppo grandi per fallire?
Primo: evitare di fossilizzarsi sulle proprie posizioni, anzi metterle sempre in discussione a ogni cambio di scenario. La prima causa di rovina delle aziende è quando le vecchie abitudini diventano leggi immutabili. La frase: “Facciamo così perché abbiamo sempre fatto così” è il più grande autogol che un manager può fare alla sua impresa.
Secondo: aggiornarsi e sviluppare costantemente la capacità di innovarsi e adattarsi. Magari anche anticipando i tempi. Perché se si aspetta troppo a cambiare, si rischia di essere superati dai competitor. Studiare una tecnologia mentre questa è ancora allo stato sperimentale o analizzare un cambio di abitudine dei consumatori mentre questo è ancora in atto permettono di arrivare preparati quando i tempi saranno maturi. Prevenire è meglio che rincorrere.
Terzo: trarre ispirazione da chi si sta già evolvendo, anche se fa parte di altri mercati. Ad esempio: come trarre il massimo dallo sviluppo tecnologico? Può darsi che un’azienda di un settore merceologico fisico possa ispirare un’azienda che offre servizi online nel modo di attirare nuovi clienti. Questo significa avere ampiezza di vedute e cogliere opportunità nuove modellandole sul proprio paradigma di business.
Il cambiamento non va quindi subito, ma cavalcato e soprattutto anticipato.