Non esiste futuro (della collezione) senza ordine. Prima di pensare al passaggio generazionale dei propri beni d’arte, è necessario inventariarli correttamente: enumerarne il contenuto, comprenderne appieno la qualità, capire se si tratta di opere con un senso unitario. Lo ribadisce Clarice Pecori Giraldi, art collection manager indipendente, raggiunta da We Wealth. «Non tutti gli oggetti che sono stati raccolti con gioia dal collezionista nel corso della sua vita sono di interesse per i posteri, che si tratti di eredi o meno». Bisogna identificare con oggettività il nucleo rilevante della collezione e valutarlo prima di scegliere lo strumento successorio ideale. «Può ben accadere che quegli oggetti non abbiano valore intrinseco, e una mancanza di obiettività in tal senso può risolversi in un gran pasticcio per gli eredi. Prima di innescare un complicato meccanismo legale e fiscale si dovrebbe passare a un attento esame il contenuto della propria raccolta d’arte. E chiedersi qual è il fine che si vuole davvero perseguire. Solo per fare un esempio: costituire un trust è solo un modo per procrastinare le decisioni? Il professionista incaricato di occuparsene dovrebbe avere la correttezza di dire se ha senso o meno procedere».
Pensa a qualche caso in particolare? «Si. A certe costose fondazioni di provincia nate con intenti lodevoli, magari per ricordare congiunti troppo prematuramente scomparsi. A volte si tratta di spazi collocati in luoghi difficilmente raggiungibili dal pubblico, pieni di opere acquistate di recente. Quanto è sostenibile una soluzione del genere? Davvero è necessario che ognuno si faccia il suo museo privato? Non sarebbe meglio – se la qualità della raccolta lo permette – rivolgersi a una collezione storicizzata come può essere (per esempio) la Tosio Martinengo o a un museo cittadino ben funzionante per capire se si può andare a integrare le opere in essi già presenti? La sostenibilità non può prescindere dall’efficienza».
Passaggio generazionale di una collezione: due casi virtuosi
Un caso esemplare di inserimento virtuoso è quello della donazione di Francesco e Chiara Carraro al museo Ca’ Pesaro (Venezia), avvenuta sotto la direzione di Gabriella Belli, storica dell’arte già direttrice del circuito dei Musei Civici di Venezia. In quell’occasione, la direttrice supportò Chiara Carraro nella selezione di quelle opere che potevano perfettamente innestarsi nel museo. Un’operazione con triplo beneficio: quello della collezione originaria – trasmessa in maniera valorizzante; quello del museo – arricchitosi di pezzi “sinergici” alla sua collezione; quello del pubblico, in ultima istanza il vero fautore del successo (e della leggenda) dell’arte. Racconta l’art collection manager: «La seconda sala Carraro termina con i due Morandi della collezione, per poi passare alla successiva, che proprio da Morandi riprende la collezione originaria di Ca’ Pesaro. Un garbo, una delicatezza e un’attenzione rari».
Un altro esempio eccellente è quello della signora Giuseppina Antognini, presidente della Fondazione Pasquinelli e donatrice di un notevole corpus di opere futuriste al Museo del Novecento di Milano, inserite in collezione senza nemmeno la richiesta di una sala dedicata. A beneficio di tutta la collettività, a futura memoria del suo gesto generoso e razionale. Carraro e Antognini sono due casi scuola, ma ogni trasmissione generazionale può diventarlo, se guidata da un bravo professionista indipendente, capace – in base alle necessità del committente – di selezionare il o i fornitori più indicati per effettuare l’inventario e la valutazione dei beni in vista dello scopo che si vuole conseguire. L’art collection manager è come il medico di base: deve essere in grado di interpretare i sintomi del paziente e indirizzarlo agli specialisti più adeguati. Non per “guarire” la collezione, ma per donarle l’immortalità.