Il meccanismo di monetizzazione dei contenuti pubblicati su piattaforme come Facebook e Youtube rischia di favorire più la disinformazione rispetto ai fatti
Per combattere alla radice il problema, ha affermato il research fellow di Bruegel, Georgios Petropoulos, andrebbero tassati i proventi pubblicitari prodotti dai contenuti contrassegnati (da organi indipendenti di controllo) come fake news
Tassare i proventi pubblicitari dei canali web che diffondono fake news sarebbe il modo più efficace per contrastarne la diffusione senza limitare la libertà di espressione: è quanto ha affermato uno dei ricercatori del noto think-tank Bruegel, Georgios Petropoulos.
Ad aver sollecitato con maggiore urgenza un intervento di policy contro la diffusione delle notizie infondate è stata la disinformazione collegata alla pandemia. Gli effetti delle fake news sanitarie, infatti, sono particolarmente rilevanti sotto il profilo della sicurezza, laddove disincentivino le misure di precauzione come la mascherina o la vaccinazione. Secondo un sondaggio YouGov citato dall’autore “un americano su cinque è convinto che il governo stia utilizzando il Covid-19 per microchippare la popolazione”, mentre “il 90% delle persone che rifiutano la vaccinazione affermano di temere di più gli effetti collaterali di quest’ultima rispetto all’infezione del virus”. Sono solo alcuni esempi in grado di mostrare il forte potere persuasivo delle informazioni che, pur nella loro infondatezza, riescono a persuadere una parte consistente della società.
“We’re not just fighting an epidemic; we’re fighting an infodemic.
Fake news spreads faster and more easily than this #coronavirus & is just as dangerous”-@DrTedros at #MSC2020 #COVID19— World Health Organization (WHO) (@WHO) February 15, 2020
“Le fake news si diffondo molto più in fretta e facilmente di questo virus”, aveva dichiarato lo scorso 15 febbraio il direttore dell’Oms, “questo è altrettanto pericoloso”.
Dal momento che chi produce fake news lo fa, nella gran parte dei casi, per raggiungere un profitto grazie alle inserzioni pubblicitarie, colpire questa fonte di reddito tramite una nuova tassa “mirata” consentirebbe di scoraggiare quest’attività, ha affermato il ricercatore di Bruegel.
All’origine del circolo vizioso
Servizi come YouTube e Facebook, ad esempio, consentono di monetizzare gli spazi pubblicitari inseriti nei video pubblicati sulla piattaforma. I creatori, in questo modo, ricevono dalle piattaforme una parte dei loro ricavi pubblicitari in ragione dell’audience che riescono a raccogliere tramite i propri contenuti.
“Le notizie false possono essere più efficaci nell’attirare l’attenzione online e quindi diventare più redditizie rispetto alla narrazione dei fatti”, ha affermato Petropoulos, citando uno studio secondo il quale le fake news hanno una probabilità di essere ricondivise superiore del 70% rispetto alle notizie vere. “Le persone con opinioni forti/di parte sono più incentivate a visualizzare contenuti ideologici simili… in un circolo vizioso che aumenta la probabilità di un effetto valanga”, ha scritto l’autore. L’obiettivo sarebbe ridurre tale incentivo alla produzione di fake news, tassando i redditi prodotti da tali contenuti; trattandole, insomma, come qualsiasi altra attività che produca esternalità negative (come l’inquinamento) ha sostenuto Petropoulos.
“La tassa dovrebbe essere imposta sulle entrate delle piattaforme che sono derivate da annunci etichettati come fake news” da appositi organi indipendenti, composti da esperti vagliatori dei fatti. “Questa tassa sugli annunci digitali non solo ridurrebbe le entrate che le piattaforme realizzano dalla disinformazione, ma anche i premi che i creatori di contenuti falsi possono estrarre dalla loro presenza online”, ha aggiunto il ricercatore di Bruegel.
Questo provvedimento fiscale non limiterebbe la libertà di espressione in quanto tale, ma ridurrebbe l’incentivo economico alla produzione di notizie false contribuendo, così, a ridurre il numero di pubblicazioni finalizzate a sfruttare la disinformazione per fare cassa. Inoltre, agire sulla leva economica eliminerebbe “il conflitto di interessi per le piattaforme” dal momento che, “non potendo monetizzare sulle fake news, sarebbero spronate a combatterle più efficacemente”.
La designazione di organi preposti a giudicare cosa sia “fake” o meno rimane uno dei punti più delicati e, per certi versi, al confine con la censura. Distinguere una falsità da una semplice opinione estremista non è un compito semplice, tanto più se da esso discendono conseguenze di tipo economico-fiscale. “Comprendere l’economia che sta alla base del problema dell’infodemia sulle piattaforme dei social media”, ha concluso tuttavia Petropoulos, “è di vitale importanza per progettare le politiche adeguate per combatterla”.