Il ritorno alla “normalità” monetaria ha ripristinato in Europa la remunerazione delle riserve in eccesso (rispetto al minimo obbligatorio) che le banche commerciali private detengono presso la Banca centrale europea. Sembra una questione che riguarda molto da lontano famiglie e imprese, ma in realtà non è così: perché a pagare questi interessi alle banche è, indirettamente, tutta la collettività. E’ giusto che sia così? E’ l’interrogativo che ha sollevato, in un articolo comparso sul sito del think-tank Cepr, il professor Paul De Grauwe, docente di politica economica europea presso la London School of Economics e influente voce critica sin dai tempi della crisi dell’euro.
Innanzitutto, i numeri. Alla fine di dicembre la Bce ha innalzato il tasso sui depositi (deposit facility rate) al 2%. Alle banche commerciali che parcheggiano la propria liquidità presso la banca centrale viene offerto un interesse privo di rischio, con l’obiettivo finale di limitare il credito verso l’economia. Quando la banca centrale punta a raffreddare l’inflazione deve limitare la circolazione della moneta, la maggioranza della quale viene creata proprio attraverso il credito bancario. Dal momento che le riserve in eccesso depositate dalle banche europee presso la Bce ammontavano a 4.600 miliardi di euro alla fine del 2022, assumendo che i tassi non salgano ulteriormente e che le riserve restino stabili le banche europee porteranno a casa, senza nessun rischio, ben 92 miliardi di euro: ossia una cifra pari allo 0,75% del Pil dell’Eurozona.
Si tratta di una somma sottratta alla collettività perché, al contrario di quanto affermano alcune teorie cospirazioniste, la banca centrale è un ente di diritto pubblico che è obbligato a versare gli utili che realizza nelle casse dello Stato. Nel caso della Bce e dell’Eurosistema il meccanismo funziona nello stesso modo, anche se a “staccare l’assegno” allo Stato italiano è la Banca d’Italia. Per gli Stati europei offrire maggiori interessi alle banche significa ricevere 92 miliardi di euro in meno nel solo 2023 e, a parità di altri fattori “aumentare il deficit dello 0,75%” . Alla sola Banca d’Italia spetterebbero circa 12,7 miliardi, che potrebbero essere girati allo Stato Italiano e che, invece, andranno alle banche.
La rinuncia di questo corposo utile sarà coperto con “maggiore austerità nel futuro”, ha affermato il professore della Lse, ossia riducendo la spesa pubblica o aumentando le imposte.
Secondo la prassi corrente della politica monetaria remunerare le riserve presso la banca centrale è un meccanismo non nuovo, ma comunque abbastanza recente. Ma, per diverso tempo, i tassi sui depositi Bce hanno scontentato soprattutto le banche. Fra il 2014 e il 2022 le banche europee erano soggette a un tasso negativo che le costringeva a pagare la Bce per poter depositare le riserve in eccesso. Era un modo per incoraggiare la circolazione della moneta. Ora che l’obiettivo non è più incoraggiare il credito bancario, ma frenarlo, la Bce ha deciso di aumentare in fretta i tassi riportandoli ai massimi dal 2008. Una buona notizia per le banche, i cui titoli azionari infatti sono andati molto bene nella seconda metà del 2022. Meno per le casse pubbliche.
Tutto normale? Secondo il professor De Grauwe ci sarebbero modi meno costosi per raggiungere lo stesso obiettivo di politica monetaria: ossia rendere più costoso indebitarsi e, dunque, ridurre il flusso di credito. Da qui le domande del docente della Lse: “Perché le banche commerciali dovrebbero essere remunerate per detenere riserve liquide presso la banca centrale? In secondo luogo, questa remunerazione è necessaria per condurre la politica monetaria? Terzo, esistono procedure politiche alternative che evitino il pagamento d’ingenti interessi alle banche?”.
Remunerare le riserve delle banche: cosa significa
Considerando che la Fed remunera le riserve solo dal 2008 e che prima dell’euro (1999) solo la Bundesbank adottava questa pratica in Europa, De Grauwe ritiene che ci siano legittimi dubbi sulla necessità di mantenere questa prassi. In termini di puro principio, il professore sostiene che non ci sia una vera ragione per la quale le banche dovrebbero ricevere parte del profitto della banca centrale, che è collegato alla creazione di moneta (signoraggio): si tratta di un’attività pubblica i cui proventi appartengono alla collettività. Di conseguenza, “l’attuale situazione nella quale le riserve in eccesso vengono remunerate alle banche equivalgono a un sussidio pagato dalla banca centrale” – denaro che, dunque, non andrà più agli Stati.
La principale obiezione è la seguente. Dopo anni di allentamento monetario, di creazione abbondante di moneta per contrastare bassa inflazione e le conseguenze della pandemia, le banche si sono riempite di liquidità. Se il tasso sui depositi Bce rimanesse a zero, le banche continuerebbero a prestare fra di loro le proprie riserve in eccesso a un “prezzo” più conveniente. A cascata, anche i tassi applicati sui prestiti resterebbero più bassi, incoraggiando una circolazione della moneta che favorisce consumi, investimenti e… inflazione. Se invece si offre alle banche un tasso più elevato completamente privo di rischio, perché a pagare è la stessa Bce, nessun tasso interbancario potrà mai scendere al di sotto di quella soglia. In sintesi, ci sarà un maggior incentivo a non far circolare quel denaro e a metterlo comodamente sotto il tetto dell’Eurotower.
L’alternativa: alzare la riserva minima obbligatoria
Per ottenere lo stesso risultato senza offrire interessi sui depositi parcheggiati dalle banche presso la Bce, sostiene De Grauwe, sarebbe sufficiente innalzare i requisiti minimi di riserva obbligatoria. Si tratta di quella quota di liquidità che le banche sono forzate a depositare presso la banca centrale e che, di conseguenza, non viene remunerata. Alzando questa asticella, l’abbondanza di liquidità in mano alle banche deve essere sempre più incanalata in un “cuscinetto di sicurezza” che non produce alcun interesse. Le banche, di conseguenza, “per ripristinare la differenza tra gli interessi guadagnati sulle attività e quelli pagati sulle passività dovrebbero aumentare il tasso di interesse applicato al loro portafoglio di prestiti”, ha affermato De Grauwe, “questo è esattamente ciò che le banche centrali perseguono oggi nella loro strategia di lotta all’inflazione”.
La differenza è che per riuscirci, lo Stato non dovrebbe rinunciare a fette consistenti degli utili realizzati dalla banca centrale.
Agire sulla riserva obbligatoria, per la Bce, non sarebbe una stregoneria: “Gli statuti prevedono che i requisiti minimi di riserva possano essere utilizzati come uno strumento di politica monetaria”, ha affermato De Grauwe, anche se il board ha deciso di lasciarlo quasi sempre invariato all’1%.
In sostanza, anziché sussidiare il settore bancario per far sì che aumenti i tassi sui prestiti, gli si impone una riduzione forzata delle riserve che possono, in qualche modo produrre un interesse. E il risultato finale sarebbe simile. Secondo i critici, però, alzare i requisiti di riserva obbligatoria equivarrebbe a una sorta di tassa sul settore bancario. De Grauwe non nega che questa distorsione ci sia, ma invita a ponderare pro è contro. “I vantaggi in questo caso sono doppi: in primo luogo, le autorità possono eliminare un’altra distorsione, ovvero il sussidio che oggi viene concesso alle banche. In secondo luogo, l’uso della riserva obbligatoria è un ulteriore strumento di politica della banca centrale che può essere utilizzato per stabilizzare l’economia quando le riserve sono abbondanti”.
Quei 92 miliardi che potrebbero tornare alle casse pubbliche europee sono “profitti che appartengono alla società nel suo complesso e andrebbero trasferiti ai governi”, ha concluso De Grauwe.