Le parole hanno il potere di rivelare al nostro sguardo determinati aspetti della realtà: più si nominano donne quando si parla di finanza, più ci si abitua alla loro presenza in determinati contesti
Riformulare le frasi in maniera semanticamente neutra può essere la chiave. O anche utilizzare il femminile anche non si parla esplicitamente di una donna alternandolo al maschile sovraesteso
In alcune facoltà, tipicamente considerate “maschili”, il numero delle donne ha superato quello degli uomini. Ma resta una strozzatura, anche definita come “tubo che perde”, che ne blocca gli avanzamenti di carriera
Era un venerdì sera, la redazione si stava svuotando. Fuori dalla finestra le luci fioche dei lampioni illuminavano i passi svelti e irrequieti di chi rincasava. Stavamo per pubblicare un articolo su una ricerca secondo la quale – con i mercati al ribasso – i portafogli gestiti da donne sovraperformano. Sorse quindi una domanda: parliamo di “gestori al femminile” o di “gestrici”? Sembrerebbe banale, ma non lo è. La declinazione al femminile di alcune professioni, anche laddove presente, fatica ancora a entrare nel lessico comune, essendo spesso preferito quello che gli esperti definiscono “maschile sovraesteso”. Che, in ultima analisi, finisce anche per allontanare le donne dalla finanza. We Wealth ne ha parlato con Vera Gheno, ricercatrice dell’Università degli studi di Firenze, sociolinguista. Riconosciuta come l’aralda dello schwa (la e rovesciata che, nel sistema fonetico, indica un genere indistinto), ha collaborato per 20 anni con l’Accademia della Crusca.
Cosa si intende per linguaggio inclusivo o “neutro”?
Tendo a non chiamarlo linguaggio inclusivo ma linguaggio ampio, perché quando si parla di inclusione c’è qualcuno che include e qualcuno che subisce l’inclusione; è come se le persone che stanno bene si dovessero occupare di accogliere e non discriminare chi per qualche motivo devia da una presunta normalità. Per cui, allo stesso modo, preferisco parlare di convivenza delle differenze invece che di inclusione. Il linguaggio ampio pone attenzione a tutte le diversità e soprattutto a quelle che in qualche modo possono implicare o provocare una discriminazione di qualche tipo. Si parla di sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale ma anche di disabilità, neuro divergenza, corpi non conformi, povertà, etnia, religione. Lo sguardo è sempre intersezionale, cerca di tenere conto del fatto che ogni essere umano è un fascio di caratteristiche.
Come si inserisce la questione del genere in questo contesto?
È una di quelle che, giocoforza, toccano tutte le persone. Tutti siamo uomini, donne o altro e tutti viviamo in questa società come uomini, donne o altro. Ci sono persone che hanno il privilegio di non porsi domande sul proprio genere, un privilegio soprattutto maschile. Il nostro non è un mondo fatto a misura di donna, è fatto a misura di maschio. Da tantissimi punti di vista: dai bias che gli algoritmi riproducono all’urbanistica, dal design alla medicina. C’è un androcentrismo piuttosto evidente.
Qual è il ruolo della parola?
Le parole non hanno il potere magico di cambiare la realtà o le cose, ma hanno il potere di far vedere meglio al nostro sguardo determinati aspetti della realtà. Quando si nomina qualcosa, e la si nomina con precisione, diventa più visibile. L’emersione del femminile nell’italiano è dovuta infatti a una maggiore presenza femminile in molti contesti; ma ha anche un effetto di ritorno: più nomino donne che lavorano in certi contesti più abituo il cervello che la presenza femminile in quei contesti non è un’eccezione.
Nel 2008 il Parlamento europeo ha adottato, pioneristicamente, linee guida multilingue sulla neutralità di genere nel linguaggio. Come procedere nella pratica?
Intanto, capisco che per comodità si parli di linguaggio neutro, però quando parliamo di neutro pensiamo a una terza declinazione, come il latino. In realtà, quello che sta succedendo in Italia, ma anche in altri Paesi, è che si cerca di non esprimere il genere, trovando formulazioni che non implichino l’uso del famoso maschile sovraesteso. Per esempio invece di “alcuni” utilizzare “alcune persone”, “alcuni individui”, “alcuni soggetti”, tutti termini che hanno un genere grammaticale ma che non implicano un genere dal punto di vista semantico. Nella pratica, è chiaro che abbiamo a disposizione forme sperimentali di cui tutti (o tutt*) stanno parlando, l’asterisco, lo schwa e così via, però è evidente che in una comunicazione professionale, aziendale o rivolta a un pubblico molto ampio, sarei la prima ad avere qualche perplessità. Un principio guida deve essere la comprensibilità. Non posso pretendere che tutti conoscano lo schwa. Però ci sono altre tattiche. Una delle più semplici è riformulare la frase in modo da non dover esprimere il genere. Invece di dire “gli investitori e le investitrici” (che lascerebbe fuori una parte, per quanto minoritaria, della società che non si riconosce nei generi binari) potrei usare “chi ha intenzione di investire” o “chi sta investendo denaro”.
La finanza, numeri alla mano, resta un “club” per soli uomini. Il linguaggio ampio può aiutare a ridurre questo mismatch?
Chiaramente dietro ci sono grossi squilibri socio-culturali. Maneggiare il denaro è ancora visto come una cosa maschile perché chi porta soldi a casa è solitamente l’uomo. A volte però il problema dell’emancipazione femminile passa anche dall’assenza di possibilità di scelta. Il primo scoglio è familiare, quell’idea malsana che le donne siano biologicamente più portate ai lavori di cura della casa, dei figli e degli anziani. Prima di arrivare ad avere un impatto su una mentalità così radicata ci vuole ben altro delle parole. Ma anche quelle contano. Quando si parla di finanza spesso si finisce per creare un “recinto dei panda”: si dice “finanza al femminile”, “investimento al femminile”, “la finanza si fa rosa”. Non c’è ancora la consapevolezza che una donna possa fare tutto quello che fa un uomo in termini finanziari. Bisogna normalizzare la presenza delle donne anche in questo settore. Senza creare un’isola speciale. Lo stesso vale quando si tratta di consulenti finanziari e finanziarie o di gestori e gestrici.
(Articolo tratto dal magazine We Wealth di marzo 2023)