L’auto sfreccia sulla A1, fra Reggio Emilia e Bologna. Il paesaggio è nebbioso, umido. Le striature grigiastre dell’aria lasciano intuire operosità, più che creatività. Campi agricoli, capannoni, allevamenti. Solchi, filari, fontanili. Tranquilli aggregati urbani di provincia. Orizzonti piatti e colori vaghi, che l’obiettivo di
Luigi Ghirri intercettava in linee pacate e meditative. Pochi immaginerebbero che in questa terra così lontana dal glamour nasceva nel dopoguerra (era il 1951) ad opera di Achille Maramotti (1927-2005) la storia di Max Mara, il “gigante silenzioso” del sistema-moda. Marchio sinonimo di eleganza, coerenza, sobrietà con carattere e di… cappotto.
Si, perché il brand ammiraglio del gruppo Maramotti si è guadagnato la riconoscibilità nei mercati internazionali dell’abbigliamento grazie al capospalla per eccellenza. Un prodotto di tale qualità estetico-materica da guadagnarsi a più riprese la benedizione della compianta ex direttrice di Vogue Italia Franca Sozzani, per la quale i cappotti Max Mara avevano sempre «tessuti e tagli perfetti». Oggi, il gruppo del paltò per antonomasia conta 23 marchi, 41 società, 2500 negozi monomarca, 5600 dipendenti, e un business che non conosce crisi.
Uno dei paltò più emblematici del gruppo di Achille Maramotti scivola addosso a una giovanissima Carla Bruni
Il giovane Achille lascia che siano le donne di famiglia a indicargli la strada della sartoria. Sua madre Giulia Fontanesi aveva una scuola di taglio e cucito. Sua nonna Marina Rinaldi (dice niente questo nome?) era proprietaria di una boutique a Reggio Emilia. La ragione sociale Max Mara deriva dal diminutivo del suo cognome preceduto dal
beneaugurante e deciso “Max”. E Achille Maramotti può
definirsi a buon diritto l’inventore del pret-à-porter italiano. Per la produzione si ispirò subito ai processi industriali americani. Lo fece coniugandovi la sua
capacità di percepire le tendenze socio-culturali che di lì a poco avrebbero dato vita a quella che oggi chiamiamo moda.
Fuori dall’incubo del fascismo, l’Italia desiderava modernità e benessere. Già nel 1952 Achille amplia l’attività. I dipendenti, da un paio che erano nel 1951, diventano 40. Nel 1955 salgono a 200. A soli sei anni dalla fondazione della sua impresa, Maramotti vola a New York. Vi tornerà in pieno boom economico, nel 1963. Dagli Usa importa la fabbricazione industriale, la scomposizione dei processi produttivi e l’intuizione di Sportmax (1969), linea che guarda allo sportswear, a donne dalla fisicità nuova, alla moda della Swinging London. La Rinascente di Milano ha fatto in tempo a celebrare l’anniversario del marchio nel 2019, con otto vetrine colorate e dal sapore geometrico, ideate dal regista teatrale Robert Carsen (Toronto, 1954).
La prima fabbrica di Max Mara a Reggio Emilia, Achille Maramotti, alcuni capi di una collezione Sportmax
Sotto l’ombrello del gruppo, marchi come Sportmax, Sportmax Code, Weekend Max Mara, ‘S Max Mara, Max & Co, Marella, Emme Marella, Pennyblack, Persona, iBlues, Marina Rinaldi. Il patrimonio familiare dei Maramotti è stimato intorno ai
quattro miliardi di euro. La famiglia è inoltre azionista storica di maggioranza nel
Credito Emiliano. Si tratta tuttavia solo di un lato della medaglia. Come a volte accade, a tanto alacre lavoro e genio imprenditoriale fa da contraltare un mecenatismo tenace e anticipatore delle tendenze di un altro mercato, quello dell’arte. È il caso di
Achille Maramotti. Il capitano d’impresa accumulò in cinquant’anni (dagli anni Cinquanta ai primi Duemila), con intuito e generosità,
una collezione privata di arte contemporanea da molti considerata la migliore nel suo genere.
Collezione Maramotti apre al pubblico nel 2007, nel vecchio stabilimento industriale Max Mara a Reggio Emilia, ideale lascito culturale del suo fautore. Si compone di oltre 200 opere realizzate dal 1945, e raccoglie le tendenze artistiche internazionali più importanti della seconda metà del XX secolo. Un esempio unico nel panorama del collezionismo privato italiano. La collezione permanente è il fulcro attorno a cui ruotano attività collaterali ma vitalizzanti come conversazioni a tema, presentazioni di libri d’artista, concerti, spettacoli di danza e mostre temporanee.
L’ultima, a cavallo fra il 2020 e il 2021, è emblematica dello spirito precursore di Achille Maramotti. È dedicata alla creazione visionaria del torinese
Carlo Mollino (1905-1973), architetto, esteta, intellettuale, fotografo, designer, pilota. Un nome che il collezionismo internazionale ha scoperto e iniziato a mitizzare in tempi recenti. È proprio di Mollino il tavolo da pranzo battuto da Sotheby’s lo scorso ottobre 2020 per 6,2 milioni di dollari. Aperta il 4 ottobre 2020,
la mostra Mollino/Insights –
Enoc Perez,
Brigitte Schindler si concluderà il 16 maggio 2021.
La scelta dei due artisti contemporanei – apparentemente molto distanti fra loro – si deve al loro comune interesse verso la complessa personalità di Carlo Mollino e la sua misteriosa “Casa” torinese, mai abitata. Enoc Perez, portoricano newyorkese d’adozione, è già presente nella collezione permanente dei Maramotti. L’artista padroneggia la materia pittorica delle immagini tratte da Casa Mollino con una consistenza fantasmatica, fino a renderle ultra-dimensionali e oniriche. Brigitte Schindler, fotografa tedesca, riesce a captare prospettive inedite degli interni dell’abitazione, restituendone la composizione accurata ed enigmatica. L’architetto non racconta con le parole, lo fa con la materia. E i due artisti lo sanno cogliere.
Dalla prima in alto a sinistra, in senso orario. Luigi Ghirri, Cadecoppi – Dalla strada per Finale Emilia, 1986; Swinging London, 1967; Piazza San Carlo, a Torino, negli anni del Boom economico; Luigi Ghirri, Fidenza 1985
La collezione Maramotti è un altro tesoro nascosto negli spazi sfumati della Bassa padana, subregione che è patria della grande fotografia italiana. Dal pensiero-paesaggio di Luigi Ghirri e Guido Guidi alle immensità cromatiche allineate di Franco Fontana, passando per le vertigini di Olivo Barbieri. La Terra, l’Emilia, la Luna, cantava qualche anno fa Vasco Brondi/Le luci della centrale elettrica. Fra strade sterrate e territori piatti la luna può galleggiare. E la creatività stilistica svilupparsi indisturbata. Anche quella imprenditoriale.
Luigi Ghirri, Cittanova di Modena, 1985. © Eredi di Luigi Ghirri – Courtesy Fondo di Luigi Ghirri
L’auto sfreccia sulla A1, fra Reggio Emilia e Bologna. Il paesaggio è nebbioso, umido. Le striature grigiastre dell’aria lasciano intuire operosità, più che creatività. Campi agricoli, capannoni, allevamenti. Solchi, filari, fontanili. Tranquilli aggregati urbani di provincia. Orizzonti piatti e col…