Il 61% delle imprese attive in Cina dichiara di essere sottoposto a un regime di lockdown e oltre il 40% manifesta una certa incertezza sul proprio futuro nella Terra del Dragone
La produzione risulta ritardata di oltre due settimane per il 50% delle intervistate e quasi l’80% sta assistendo a un aumento dei costi di approvvigionamento del 30-50%
Prima Shanghai, poi Pechino. La nuova ondata di contagi nel territorio asiatico e le sempre più stringenti misure di lockdown rischiano di paralizzare le filiere globali, già compromesse dalla crisi russo-ucraina. Con le imprese italiane che, dal canto proprio, iniziano a stimare un fatturato annuo in calo del 20%. Preparandosi a congelare anche gli investimenti.
Stando a una recente indagine della China-Italy chamber of commerce dal titolo Impact of covid-19 on italian companies in China (condotta in una prima fase tra il 16 e il 22 marzo e in una seconda fase tra il 15 e il 21 aprile, cui ha risposto il 50% della base associativa di oltre 580 imprese di cui il 78% pmi), il 61% dichiara di essere sottoposto a un regime di lockdown e oltre il 40% manifesta una certa incertezza sul proprio futuro nella Terra del Dragone. L’80% presta attenzione al tema della mobilità tra Cina e Italia, alla luce delle restrizioni sulla politica dei visti e la persistente cancellazione dei voli che hanno impedito agli esperti di recarsi in Oriente per fornire un supporto tecnico ma anche alle famiglie di riunirsi.
La produzione, in questo contesto, risulta ritardata di oltre due settimane per il 50% delle intervistate e quasi l’80% sta assistendo a un aumento dei costi di approvvigionamento del 30-50%. “Il trasporto dei materiali è difficoltoso, con conseguenti ritardi o interruzioni nella catena di approvvigionamento”, rendendo impossibile anche “la spedizione tempestiva delle merci nei paesi e nelle regioni di destinazione (Cina, Italia, Europa)”, si legge nel rapporto.
Di conseguenza, come anticipato in apertura, oltre il 50% delle imprese stima un calo del fatturato e dell’utile superiore rispettivamente al 20% e al 50% nel 2022 rispetto al 2021. Il 36% non sa se continuare a investire e il 48% ha già adottato delle misure per ritardare, ridurre o annullare gli investimenti. Senza dimenticare un 16% che prevede di spostare la propria attività fuori dalla Cina continentale qualora le attuali restrizioni persistessero anche nel 2023. Anche perché attorno al ritorno alla “normalità”, dal punto di vista produttivo, resta un alone di incertezza: il 39% non riesce a prevedere alcuna data chiara, il 28% ritiene che non avverrà prima della fine di maggio e il 13% punta su giugno.
Ma l’incubo lockdown non spaventa solo le piccole e medie imprese tricolori. Le restrizioni cinesi, stando a quanto risulta al Financial Times, stanno scuotendo anche le linee di produzione delle multinazionali occidentali. Apple, Coca-Cola, General Electric e Pernod Richard hanno già iniziato a guardare alla minaccia dei blocchi dilaganti. Ma anche Amazon, che evidenzia come ottenere merci dalla Cina via mare e via aria oggi costi di più e richieda più tempo a causa delle limitazioni in alcuni dei principali porti e le interruzioni per treni e autotrasporti.
L’amministratore delegato di Coca-Cola James Quincey ha dichiarato che, dopo un inizio anno molto forte, i blocchi (specie a Shanghai) hanno spinto l’azienda a chiudere il trimestre in negativo. Lo stesso vale per Pernod Ricard, multinazionale francese specializzata nella fabbricazione e la distribuzione di vini e alcolici che realizza il 10% delle sue vendite in Cina, che ha avvertito di essere stato “particolarmente colpito” dalle restrizioni covid. In sofferenza nelle ultime settimane anche il leader mondiale nel settore del lusso, Lvmh.