La percentuale di posizioni assegnate a uomini e donne nei board delle società europee si sta avvicinando alla parità (si parla rispettivamente del 52 e del 48%). L’Italia resta leggermente indietro con il 54 e 46%
Flavio Zollo: “Raggiunto l’obiettivo quantitativo, bisogna curare l’integrazione, attivare al meglio gli stimoli che la diversità di genere può indurre e schivare alcuni rischi di autocompiacimento. Aprendo opportunità per le giovani generazioni”
Ci sta una citazione da boomer. Ancora oggi affrontiamo “il logorio della quota moderna”. Possiamo essere soddisfatti dei risultati raggiunti, ma cediamo facilmente al compiacimento per un riequilibrio – per ora solo di genere – puramente quantitativo. Ora che, non senza ragione, si mettono in agenda nuovi e più ambiziosi traguardi di diversità culturale e generazionale bisogna consolidare il percorso, tenere il passo e sfuggire le inerzie. Le “quote rosa” hanno inevitabilmente messo l’accento sull’elemento quantitativo, inducendo competizione su una risorsa scarsa, ossia su profili di genere con competenze di governance e track record manageriale o professionale tali da poter essere positive contributrici di un consiglio di amministrazione. Raggiunto, non senza difficoltà e con qualche inevitabile compromesso, l’obiettivo di riequilibrio quantitativo, bisogna curare l’integrazione, attivare al meglio gli stimoli che la diversità di genere può indurre, schivare alcuni rischi di autocompiacimento. E anche l’emergere di rendite di posizione e di ruolo, che sono tipicamente indifferenti al genere, ma connaturate al meccanismo della quota affermativa. A partire da questo più evoluto equilibrio di genere si possono cogliere nuovi obiettivi di diversità, facendo proprio leva sulla maggiore fluidità di questa nuova rappresentanza rosa, sviluppando nuove competenze e aprendo opportunità per le giovani generazioni o per la rappresentanza di istanze culturali o contenuti manageriali (facile il cenno al digitale o ai temi esg) diversi, muovendo proprio dal genere meno rappresentato. Facciamo insomma della quota rosa l’enzima di una nuova crescita.
Secondo l’ultimo rapporto di Heidrick & Struggles, lo scorso anno la quota di posizioni assegnate a uomini e donne nei board delle società europee ha quasi raggiunto la parità, con una percentuale rispettivamente del 52 e del 48%. L’Italia resta leggermente indietro con il 46%. Quali sono le ragioni dietro questo gap?
Ora che il traguardo è vicino, bisogna cercare lo stimolo per tagliarlo, ma anche le energie per inquadrare il nuovo obiettivo. Le meticolose misurazioni di questo gap quantitativo – ma parliamo di due soli punti percentuali e dimentichiamo da dove siamo partiti – defocalizzano dalla necessità di integrare al meglio i contributi delle due componenti. La priorità è arricchire questo 46%, elevando la capacità di indirizzo e l’impatto nella dialettica consiliare ed endoconsiliare. È il momento di scegliere i posti in prima fila o quelli con la prospettiva migliore, piuttosto che occupare le ultime poltrone libere in fondo al torpedone.
Che ruolo ha avuto la legge Golfo-Mosca in questo contesto?
Tutti gli studi sul tema – e quello di Heidrick, in particolare – sottolineano l’impatto determinante delle quote affermative nell’innescare, sia pure dall’alto, la formazione e lo sviluppo di una generazione di profili (in questo caso di genere) coerenti con l’imposizione normativa di un riequilibrio di composizione. Dopo dieci anni – e non c’è consenso sul fatto che un decennio sia un tempo congruo per generare e rinnovare i corretti meccanismi di selezione, ingaggio e sviluppo – possiamo andare oltre il riconoscimento degli innegabili meriti e definire il traguardo della sostenibilità e autopropulsione di questo meccanismo. Riteniamo ci sia un dibattito vivace sul positivo contributo della quota rosa nei cda e è innegabile come questa componente stia animando il dibattito culturale e accademico sulla governance. Ci sono alcune marginali derive da correggere prima che si calcifichino in inerzie fuorvianti (e la capitalizzazione di directorship rilevanti in capo a poche esponenti di genere non va demonizzata, ma è di certo spunto di riflessione) e costruire sulle dinamiche di genere gli spunti di ulteriore diversificazione dei cda.
Come si distingue il settore dei servizi finanziari?
I financial services ricadono sotto un quadro regolatorio che ha significativi impatti sui temi della governance. La auspicata ricerca di diversità entra in relazione dialettica con il rispetto delle normative sull’interlocking e con i sempre più stringenti requisiti di fit&proper. In questa prospettiva, è stato posto un preciso vincolo all’accumulo di ruoli e forzato la ricerca di soluzioni differenti e più creative. Nel breve si sconta una induction più lunga e complessa nel ruolo (con anche maggiori rischi di volatilità e/o rigetto, si veda il più elevato turnover di consigliere), ma nel medio lungo il sistema tutto si arricchisce di profili qualificati ed esperti.
Quali saranno i prossimi passi?
Partiamo pure dal risultato numerico per celebrare o per prefiggerci traguardi più ambiziosi, ma usciamo anche dalla semplificazione del key performance indicator. L’ansia da prestazione – in forma di compliance alla quota di genere – ha talvolta preso scorciatoie o sacrificato all’obiettivo candidature di alto profilo del genere più rappresentato. E da anni sentiamo crescere fastidio e recriminazioni per questo prezzo che pure è inevitabile e necessario pagare. Per questo è ora indispensabile focalizzarsi sui rendimenti e fare sì che l’investimento nella diversità di genere – che in futuro dovrebbe gemmare quella di generazione e di competenze – cominci a esprimersi oltre le visibilità individuali, in contributi sistemici. I prossimi studi sono chiamati non a contare le sedie, ma a misurare l’impulso trasformativo. Un cda “diverse” deve essere di stimolo a una trasformazione manageriale e valoriale che incorpori, esprima e diffonda nell’impresa e nel mercato questi elementi di diversità.