Negli ultimi sei mesi la squadra di Unicredit specializzata sui patrimoni delle grandi famiglie imprenditoriali ha fatto decollare i club deal, coinvolgendo un’ottantina di clienti, con investimenti complessivi per circa 200 milioni di euro. L’ultima operazione risale allo scorso marzo, con la costituzione di un veicolo che, a fianco di Style Capital di Roberta Benaglia, oggi controlla il 50,2% del marchio calzaturiero Autry International. Segue il co-investimento, a metà 2022 e fine 2023, a fianco di Vam Investment di Francesco Trapani su Florence, piattaforma di aggregazione nel mondo terzisti per i grandi brand del lusso che ha generato dal primo investimento un ritorno di oltre 70% per queste famiglie. La prossima, ha anticipato Unicredit a We Wealth, sarà annunciata a breve.
A tre anni dall’ingresso di Gennaro Del Sorbo, responsabile Ultra High Net Worth Families & Family Holdings di UniCredit, la squadra è passata da 5 a 40 professionisti con età media 39 anni, mentre le masse amministrate e gestite sono cresciute da 1 a quasi 10 miliardi di euro.
Il team, il cui target sono le prime mille famiglie imprenditoriali italiane per ricchezza, ha unito figure e competenze del wealth management con quelle dell’investment banking con l’obiettivo di ampliare il dialogo strategico con i clienti, avere piena comprensione della loro filosofia di investimento per generare un’offerta differenziante e di valore. Dalla sinergia con le reti wealth & large corporates, le Region e il team di alternative & equity capital markets, nasce quello che Del Sorbo rivendica come un modello “unico” fra i gruppi bancari.
I club deal sono diventati uno dei servizi distintivi del team Uhnwi di Unicredit, affermandosi come un’opportunità di investimento per le famiglie con grandi risorse di liquidità, spesso generate da momenti di discontinuità; ne consegue che l’interesse crescente è anche fortemente connesso alla crescita del numero di famiglie Uhnw. Solo nel 2023, in seguito al realizzarsi di questi eventi, si sono registrate 950 nuove famiglie Uhnw in Italia. Per partecipare al singolo club deal si parla di almeno un milione di euro. In collaborazione con uno “sponsor”, l’investitore diventa direttamente azionista dell’azienda target, convinto del potenziale dell’operazione e pronto a raccoglierne i frutti (e i rischi). In questo processo, UniCredit mette in contatto i suoi clienti con i fondi che organizzano materialmente i deal: “Portiamo investitori a cui gli sponsor, altrimenti, non potrebbero accedere creando un potenziale indotto in termini prospettici da queste connessioni potenzialmente infinito”.
Del Sorbo, lei ha lavorato per dieci anni in Credit Suisse. Rispetto alla Svizzera com’è messa l’Italia nella gestione dei patrimoni ultra-elevati?
Svizzera e Stati Uniti come piattaforme globali non hanno molti competitor, anche se poi in termini assoluti gestiscono asset, riferibili a clientela italiana, complessivamente marginali. Noi siamo riusciti a trovare uno spazio di mercato molto importante, che stiamo rapidamente occupando con una evidente traiettoria di crescita. L’imprenditore italiano fa fatica, comprensibilmente, a seguire un investimento diretto dall’altra parte del mondo. Per questo tipo di esposizione tendenzialmente si affida a fondi di private equity internazionali con comprovato track record.
Il Club deal piace di più a chilometro zero, si potrebbe dire?
Si deve trattare di un asset che l’imprenditore conosce, che vede, che comprende. Un investimento nel quale c’è una vicinanza e un’affinità anche culturale. Altrimenti diventa un investimento finanziario come tanti altri. In Italia abbiamo un valore enorme nel mid market, migliaia di società di grandissima qualità che, nel loro ambito specifico, sono eccellenze nel mondo. Non per nulla l’Italia è talvolta definita un ‘parco giochi’ per i fondi di private equity. L’imprenditore si chiede perché dovrebbe lasciare valore al fondo di private equity internazionale per investire nel suo paese quando può partecipare e accedervi direttamente in prima persona (anche se, nella maggioranza dei casi, da follower). Su questo terreno non entriamo in competizione con le banche svizzere o americane. E la gran parte delle altre banche italiane non dispone su questo segmento di una filiera integrata come la nostra potendo intervenire nell’identificazione del target con il team di advisory, nel financing su tutti i livelli (opco/holdco) e lati (sia venditore che acquirente), nell’equity di matrice familiare, con potenziali add-on originati con il network, infine con tutti i servizi connessi al closing.
Come scegliete le operazioni da proporre ai vostri clienti?
C’è sinergia con tutte le divisioni di Unicredit, facendo leva sulla collaborazione con le anime territoriali della banca. Siamo continuamente in contatto con i banker del corporate e investment banking, con grande disciplina analizziamo tutte le operazioni sia che ci vengono segnalate, sia che originiamo autonomamente nel team, per trovare le nuove Florence, Autry o Desa. Nel nostro modello ci affianchiamo a sponsor di grande qualità investendo su asset che le famiglie comprendono; tendenzialmente, fuori dal comparto tecnologia e dal venture capital, salvo interessi specifici delle singole famiglie, come avvenuto nel recente caso dell’ingresso in D-Orbit da parte del family office Avantgarde da noi introdotto; ma per definizione sono casi limitati e su cui operiamo più con una logica di business matching che di pitching diffuso. Un’operazione che, per l’appunto, rispecchia pienamente i razionali di investimento della stragrande maggioranza dei nostri clienti è invece il recente co-investimento a fianco di Azzurra Capital di Stefano Marsaglia su Desa, società con grande riconoscibilità dei brand, dal più famoso Chanteclair a Quasar fino a Spuma di Sciampagna, con circa 400 milioni di ricavi, marginalità in area 20%, forte generazione di cassa e un piano molto convincente di sviluppo internazionale che fa leva anche sul network del fondo.
Nella logica dei vostri clienti, perché preferire il club deal al private equity?
La principale differenza è che non ci si trova in un veicolo delegato. Con il club deal presentiamo un’opportunità e l’investitore decide autonomamente e consapevolmente, avendo accesso in qualità di investitore professionale sia a un set informativo che direttamente al management della società. Con i fondi di private equity manca quell’elemento di coinvolgimento diretto.
Il 2023 è stato uno degli anni peggiori per il private equity a livello mondiale. Nello stesso periodo, però, voi avete accelerato con i vostri club deal…
Con l’aumento dei tassi i fondi fanno fatica a raccogliere denaro però, sulla parte di co-investimenti che abbiamo sviluppato, c’è una ricchezza disponibile molto importante in Italia. A mancare, piuttosto, sono le alternative di investimento. Poche realtà sono state in grado di fare quello che stiamo facendo noi, su operazioni di tale rilevanza. Il nostro spazio per crescere sarà una funzione della qualità e della dimensione dei deal che riusciremo a portare sul tavolo.