Ormai è a tutti noto che il trasferimento all’estero della residenza fiscale delle persone fisiche e, in particolare, di coloro che posseggono cospicui patrimoni o svolgono attività ad alto valore aggiunto (quali sportivi, artisti, manager, imprenditori), può essere considerato elusivo dall’amministrazione finanziaria italiana e condurre a un accertamento di natura fiscale.
Da tempo peraltro gli Stati hanno posto interesse iniziative comuni di cooperazione internazionale volte a contrastare il fenomeno del trasferimento della residenza verso Paesi caratterizzati da un basso livello di tassazione e da barriere allo scambio di informazioni.
Tuttavia, in un contesto come quello contemporaneo caratterizzato da un crescente aumento della mobilità internazionale delle persone fisiche, può accadere che, oltre ai casi di trasferimenti fittizi, vi siano numerosi casi di soggetti che trasferiscono effettivamente il proprio centro di interessi oltre confine, per motivi assolutamente diversi dal risparmio fiscale.
In questi casi è assolutamente necessaria valutare preventivamente l’impatto delle proprie azioni a livello di fiscalità internazionale. Anche operazioni del tutto del tutto ordinarie possono essere contestate come elusive se non adeguatamente vagliate.
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Il caso in esame
Si pensi al caso – oggetto di accertamento da parte della Guardia di finanza – di un cittadino italiano, socio di maggioranza di una società quotata che ha omesso di dichiarare al Fisco italiano la plusvalenza realizzata a seguito della cessione del pacchetto di controllo avvenuta dopo il trasferimento all’estero.
Nel caso in esame il contribuente era regolarmente iscritto all’Aire, insieme alla famiglia. Il trasferimento all’estero, tuttavia, benché effettivo è stato considerato quale elemento di una strategia tesa a ottenere un illecito vantaggio fiscale.
Infatti, le trattative inerenti la cessione del pacchetto di maggioranza della società quotata in Italia erano iniziate due anni prima dell’effettivo trasferimento della famiglia. Mentre l’operazione di cessione si stava delineando con i terzi investitori, il contribuente costituiva una società di partecipazione finanziaria con sede in uno Stato membro dell’Unione europea e successivamente cedeva l’intera partecipazione detenuta nella società quotata alla propria holding estera.
Soltanto a seguito del perfezionamento di questa prima operazione il contribuente e i suoi familiari si trasferivano all’estero.
Nel primo semestre dello stesso anno, l’investitore interessato all’acquisizione della società italiana, all’esito delle trattative con il contribuente, lanciava una offerta pubblica di acquisto totalitaria sulle azioni della società quotata. A seguito di ciò la holding estera, riconducibile al contribuente italiano trasferitosi all’estero, aderiva all’Opa e cedeva l’intera partecipazione nella società quotata, incassando immediatamente il corrispettivo della vendita. L’operazione peraltro era decisamente vantaggiosa in quanto nello Stato estero le plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni in società extraterritoriali erano parzialmente detassate.
L’opinione dell’Agenzia delle entrate e la view del Fisco
In questo caso l’Agenzia delle entrate ha rinunciato a contestare la residenza estera del contribuente, anche in considerazione della difficoltà di dimostrare che questi avesse avuto per la maggior parte del periodo di imposta la dimora abituale o il centro dei propri interessi familiari e professionali in Italia.
Al contrario il Fisco italiano ha scelto di contestare al contribuente l’elusività dell’intera operazione.
L’Amministrazione finanziaria ha dunque osservato che la riorganizzazione degli assetti proprietari, con il conferimento del pacchetto di maggioranza in favore della holding estera, era avvenuto in assenza di valide ragioni economiche. Secondo il Fisco, il contribuente avrebbe dovuto alienare direttamente a terzi la propria partecipazione nella società quotata italiana per poi conferire il ricavato della vendita nella società estera; invece attraverso la modalità utilizzata dal contribuente, questi aveva evitato la tassazione in Italia della plusvalenza conseguendo un indebito risparmio fiscale.
Si noti tuttavia che tale operazione non è stata posta in essere in contrasto di una specifica disposizione tributaria: secondo l’Agenzia delle entrate strumenti legittimi sono stati utilizzati in maniera distorta con l’unico scopo di conseguire un indebito vantaggio fiscale.
Su questi presupposti non poteva che aprirsi un annoso contenzioso tributario a dimostrazione che la pianificazione fiscale e la fiscalità internazionale sono terreni scivolosi su cui è necessario addentrarsi con estrema attenzione.