Come nasce un’operazione di fusione o acquisizione? Quali sono le leve, le difficoltà, i tempi, i protagonisti? Intervenuto al IV Forum Private Market di We Wealth, Saverio Rondelli, Managing Director e Ceo di Lincoln International Italia, ha raccontato il dietro le quinte delle dinamiche dell’M&A nel tessuto imprenditoriale italiano, partendo dall’osservatorio privilegiato della sua esperienza con aziende familiari, private equity e operazioni cross-border.
Dott. Rondelli, perché e quando una famiglia imprenditoriale sceglie di intraprendere un’operazione di M&A?
Lincoln International è una banca d’affari che da trent’anni si occupa per il 95% del tempo di private capital: fondi di private equity o famiglie, spesso in situazioni miste. Siamo presenti a livello globale – America, Europa, Asia, Oceania – e posso dire che le dinamiche sono simili ovunque. Anche se ogni famiglia ha una storia a sé, ciò che accade in Oceania è sorprendentemente simile a quanto vediamo in Italia. La varietà è enorme: c’è chi gestisce l’azienda come la cucina di casa, e chi ha già introdotto un management strutturato. Alcuni vendono perché non hanno continuità generazionale; altri per motivi di conflitto o crisi. Ma il caso migliore è quando la famiglia capisce che il mondo è cambiato, che per competere bisogna crescere anche per linee esterne. Se la struttura attuale ha esaurito le sue potenzialità, occorre fare un salto di qualità. E quando dietro c’è una famiglia unita e con valori forti, l’operazione nasce da un desiderio positivo di evoluzione. Al contrario, se ci sono conflitti o carenze relazionali, queste difficoltà emergono subito anche nel rapporto con i potenziali investitori.
Quanto incide il fattore umano?
Molto. Se manca la capacità dell’imprenditore di trattenere un buon management team, ad esempio, emergono criticità. Però la cosa più bella del nostro lavoro è assistere all’evoluzione: vedere un’azienda familiare piccola trasformarsi in un’unicorno italiano, o in una realtà con crescita esponenziale. E c’è un aspetto interessante: il capitale non viene disperso, ma reinvestito. Spesso le famiglie, dopo la cessione, entrano in un contesto di private banking o private wealth e diversificano: ad esempio chi lavorava nei trasporti inizia a investire in tecnologia. Si aprono nuovi orizzonti.
Un’operazione nasce più da un’intuizione interna o da un confronto con advisor esterni?
Nasce sempre da una scelta dell’imprenditore o degli imprenditori. Poi, a seconda del livello culturale e di consapevolezza, si affidano alle figure più vicine a loro, iniziando un percorso di approfondimento e confronto. È come andare dal dentista: a volte scegli quello della città, altre volte quello top mondiale. Dipende da quanto sei pronto. Ma attenzione: le famiglie non cercano solo la massimizzazione del valore. Sono molto legate alla legacy dell’azienda. La maggior parte non vuole vendere il 100%: desiderano far entrare capitale, sì, ma anche mantenere una prospettiva futura solida. Vogliono certezza che l’operazione non danneggi sé stessi, i dipendenti, o il futuro dell’azienda.
Può raccontarci un caso concreto?
Certo. È presente oggi anche il dottor Iardella, con cui abbiamo appena chiuso una bellissima operazione, finalizzata a gennaio. Era una società toscana, e al primo incontro si sono presentati… 23 componenti della stessa famiglia. Quando li ho visti tutti in una sala da 5 stelle, ho pensato: “Così non si può lavorare”. C’erano zii, cugini, un signore di 85 anni che si addormentava, una signora con un bambino che piangeva… insomma, uno spaccato autentico. Però erano persone illuminate, molto unite, e hanno ascoltato. Abbiamo lavorato con pazienza, e insieme a Bain & Company abbiamo costruito una strategia forte. Alla fine hanno scelto di far entrare un fondo di private equity in minoranza. Alcuni membri sono usciti, altri hanno reinvestito. Questa flessibilità ha permesso di trovare una soluzione perfetta per una famiglia con esigenze molto diverse. La società si chiama Lucart e opera nel settore della tissue paper – volgarmente carta igienica, ma non solo – in tutta Europa.
Nel concreto, come si struttura un’operazione M&A di successo?
Domanda importante. Il punto è che il direttore d’orchestra arriva con l’orchestra, e la qualità dell’operazione dipende dalla qualità dell’orchestra stessa. Se l’azienda non ha un controllo di gestione adeguato, se il direttore finanziario è debole, se non c’è un business plan o una strategia chiara, allora anche il miglior advisor avrà difficoltà. Serve chiarezza, ascolto e un cliente pronto a lavorare in sinergia. Si parte da una narrativa ben costruita, da una vendor due diligence fatta bene, affiancata dai giusti advisor legali e fiscali. Poi si identifica il panel degli investitori, si definiscono obiettivi e struttura dell’operazione, e si lavora su un fit strategico. Il rapporto di fiducia con il cliente è essenziale.
Cosa cambia tra famiglie e fondi di private equity?
I fondi sono professionisti. Fanno operazioni ogni giorno. Non serve spiegare loro come funzionano certi meccanismi. Con le famiglie, invece, bisogna fare molta education. Spiegare, accompagnare, costruire fiducia. Il mio record? Abbiamo venduto un’azienda in undici anni. Undici anni di riflessioni, ripensamenti, esitazioni. Serve pazienza. Ma quando si arriva al traguardo, è bellissimo.