Il Consiglio dell’Unione europea ha assunto la sua posizione sulla Retail Investment Strategy (Ris), il pacchetto di riforme che ridisegnerà le regole per i prodotti di investimento e la relativa distribuzione alla clientela al dettaglio. Rispetto al testo votato dal Parlamento europeo lo scorso aprile, emergono alcune differenze importanti sulle modalità per misurare il rapporto costo-valore dei prodotti finanziari (value-for-money).
Il principio resta quello della comparabilità dei costi in gruppi omogenei, con due possibilità. Il confronto diretto con benchmark europei elaborati dalle autorità di vigilanza Esma o Eiopa (per i prodotti assicurativi), oppure il confronto fra sottogruppi di prodotti comparabili (peer-group). Contrariamente a quanto previsto nella versione parlamentare della Ris, i benchmark sarebbero pubblici e, soprattutto, solo e soltanto europei: no, dunque, a benchmark nazionali per confrontare prodotti diffusi in un solo Paese.
In sintesi, per dimostrare che il loro prodotto finanziario ha costi ragionevoli, le case prodotto dovranno condurre internamente un confronto con il peer group o direttamente con il benchmark di livello europeo.
Secondo il presidente di Ascofind, Massimo Scolari, l’idea che i gestori possano creare peer group poco credibili per passare l’esame dell’adeguatezza sul costo-valore non andrebbe molto lontano. “Credo che l’industria, con le associazioni Efama e, per l’Italia, Assogestioni, si metterà d’accordo per elaborare peer group credibili”, ha affermato Scolari in un’intervista a We Wealth. L’ipotesi che un prodotto inefficiente possa restare ‘in piedi’ perché confrontato con un gruppo di controllo dai costi medi elevati esporrebbe le case di gestione ad azioni di vigilanza – il cui metro di paragone resterà il benchmark ufficiale europeo.
Non solo, la proposta del Consiglio prevede che anche i distributori facciano una valutazione del value-for-money, nei casi in cui le case prodotto non abbiano tenuto in considerazione anche i costi distributivi nella propria analisi. Non è quindi garantito che un prodotto dal rapporto qualità-prezzo adeguato secondo i confronti della casa prodotto sia giudicato come tale anche dal distributore, ad esempio una rete di consulenza finanziaria, ha affermato Scolari. Questo doppio controllo, almeno sulla carta, dovrebbe permettere ai risparmiatori di ottenere consulenza evitando all’origine prodotti troppo costosi per il valore offerto. Il braccio di ferro sulla RIS, finora, ha visto molto più attive le case prodotto – il cui timore era quello di vedere, di fatto, tetti massimi sui costi decisi a tavolino.
Il controllo dei valore lo fanno anche i distributori
“La grande assente dal tavolo sono i distributori di prodotti finanziari che non hanno compreso appieno cosa li aspetta”, ha affermato Scolari, secondo il quale l’interesse delle case di gestione e quello delle reti di consulenza non è pienamente allineato in questa battaglia. Infatti, un value-for-money a maglie più strette potrebbe essere relativamente più gradito alle realtà della consulenza finanziaria, che potrebbero servire i clienti con prodotti più competitivi.
Consiglio e Parlamento sono concordi nell’escludere che i benchmark di riferimento sui costi siano il preludio a un controllo preventivo sui prezzi governato dall’alto. Ma esattamente cosa dovrebbe succedere nei casi in cui un prodotto fallisce l’esame del value for money?
Secondo la proposta del Consiglio, in questi casi si aprirebbe una seconda fase di analisi: “Valutazioni aggiuntive potrebbero, ad esempio, stabilire che un prodotto offre value-for-money se contiene caratteristiche speciali aggiuntive come strategie di investimento di nicchia, considerate rilevanti per un particolare gruppo di investitori con bisogni e obiettivi identificati, ma che non sono riflessi nella descrizione del gruppo di prodotti di investimento nel gruppo di confronto”, si legge nel testo. Fatto questo esame ulteriore, si prevedono “azioni appropriate per garantire il value-for-money” che “potrebbero includere, ad esempio, un significativo aggiustamento della strategia di investimento o un aggiustamento del contratto di un fornitore di servizi, risultando in una riduzione dei costi e delle spese per il cliente. I produttori e i distributori dovrebbero mantenere flessibilità nelle azioni da intraprendere, tenendo conto delle caratteristiche del prodotto di investimento e dell’interesse degli investitori al dettaglio, a condizione che queste azioni possano ragionevolmente essere considerate atte a garantire che il prodotto di investimento offra valore”.
I costi dei fondi scenderanno davvero?
Sul piano pratico, però, tutto questo potrà far calare i costi sostenuti dai risparmiatori? “La compressione dei costi ci sarà”, ha affermato Scolari, “perché fondi costosi che sottoperformano, che restano in circolazione per anni a causa di inerzia o pigrizia verranno a galla”. Questi prodotti, che ancora popolano i portafogli degli investitori, finora non sono mai stati messi a nudo da processi di confronto come quello delineato dal Consiglio. Secondo Scolari, questo procedimento “farà pulizia”, soprattutto su fondi d’investimento di vecchia data, mediamente più costosi di quelli arrivati sul mercato in epoca più recente: “questo secondo me è un aspetto molto positivo”.
I prossimi passi della Ris
La proposta del Consiglio dell’Ue, ha affermato Scolari, sembra più equilibrata e praticabile di quella votata dall’Europarlamento. Nella prossima fase, con il Parlamento rinnovato dalle ultime elezioni, si cercherà la mediazione fra Consiglio e Parlamento che consegnerà la Ris nella sua forma finale. Si preannuncia qualcosa di molto diverso dal divieto degli incentivi sulla consulenza finanziaria minacciato inizialmente dalla Commissione europea, anche se i criteri per poterli “caricare” sui clienti diventano più chiari nei principi – con l’obiettivo di non influenzare la raccomandazione dei prodotti sulla base delle retrocessioni ricevute dalle case prodotto. Nello specifico, le reti e gli altri distributori dovranno spiegare in che modo questa forma di compenso ricevuto “non costituisca un incentivo alla società di investimento per offrire o raccomandare al cliente un particolare strumento finanziario o servizio, rispetto ad altri”. In altre parole, l’incentivo potrà restare, a patto che si dimostri che non influenza la pratica del consulente.