Il private equity ha rialzato la testa dopo il biennio nero 2022-2023: sono tornate a crescere del 34% le exit, che hanno raggiunto i 468 miliardi di dollari, dopo il congelamento delle distribuzioni di liquidità e, a sorpresa, senza che vi sia stata una revisione al ribasso dei multipli delle aziende in portafoglio. In parallelo, i fondi di private equity hanno ripreso a investire le risorse a loro affidate, con un incremento del 37%, portando gli investimenti a 602 miliardi nel 2024, riducendo così il dry powder, la potenza di fuoco investibile, dal record di 1.300 miliardi a 1.200.
Fra le note negative, però, è arretrata la raccolta (-23%) così come la quota di masse distribuite agli investitori (dal 12% all’11%), mentre si allungano i tempi medi di rientro dall’investimento iniziale. Nel complesso, prevalgono le buone notizie dal nuovo Global Private Equity Report 2025, presentato da Bain & Co, ma con importanti riflessioni su un futuro che probabilmente non somiglierà alla lunga fase dei tassi d’interesse rasoterra che ha consentito una crescita poderosa del settore nel post-2008. Potendo contare molto meno sulla crescita dei multipli, i fondi di private equity si dovranno concentrare maggiormente sulle altre due leve per estrarre valore dalle aziende: migliorarne i margini (tramite razionalità su costi e prezzi) e la crescita dei ricavi. Poter contare meno sull’espansione dei multipli non sarà una piccola rinuncia: nel decennio 2014-2024, il 42% dell’aumento nel valore d’azienda è stato ottenuto attraverso questa rivalutazione, mentre il 52% è arrivato dalla crescita dei ricavi e solo il 6% dall’espansione dei margini. “In futuro, potendo contare meno sull’espansione dei multipli, il ritorno atteso potrebbe essere inferiore”, ha affermato in una conferenza stampa il nuovo responsabile per il PE di Bain & Co, Sergio Iardella.
Per gli investitori, però, restano buone ragioni per continuare a diversificare con il private equity, specialmente se si confrontano in Europa le performance dei fondi con l’andamento dell’azionario pubblico. “Se ci concentriamo su Stati Uniti ed Europa, vediamo che il ritorno dei fondi, soprattutto su un orizzonte di 10 anni, continua a essere interessante”, ha dichiarato Iardella, sottolineando come il ritorno dei fondi di private equity abbia generato il doppio dell’azionario pubblico europeo sull’orizzonte decennale: “questo dato si inserisce anche nel contesto del fundraising, che in Europa sta andando relativamente meglio rispetto agli Stati Uniti”.
Al contrario, i dati mostrano come dal 2017 in poi il gap tra i ritorni si sia ridotto negli Stati Uniti, dove i mercati azionari pubblici sono stati particolarmente performanti. “In sintesi, il messaggio chiave per il mercato, in termini di investimenti e exit, è che i fondi di private equity continuano a offrire ritorni superiori rispetto agli investimenti nei mercati pubblici”, ha affermato Iardella, “con un orizzonte di 10 anni che rappresenta una tempistica ragionevole per ottenere buoni risultati”.
In Italia, nel frattempo, le tendenze appaiono meno volatili: nel 2024 c’è stato un aumento nel numero delle operazioni, con 200 deal se si escludono le operazioni di add-on (acquisizioni da parte di società già in portafoglio). In aumento anche in Italia le exit (+15%), anche se con la rumorosa assenza delle Ipo come canale di realizzo. Le previsioni sulla crescita delle operazioni per il mercato nazionale, ha affermato Iardella, restano positive anche per il 2025 anche se la partita si giocherà su “20-30” deal riguardanti aziende dall’Ebtida superiore ai 30 milioni di euro.
Agli investitori una quota minore delle masse investite
Nel 2024 è continuata a scendere, anche se di poco, la percentuale di capitale restituito agli investitori rispetto alle masse gestite: su 4.700 miliardi di dollari under management, si calcola un 11% di restituzione, pari a 470-500 miliardi di dollari. Nel 2021, il dato era arrivato, in modo isolato, a un anomalo 32%, mentre nel decennio pre-covid era sempre stato sopra il 20%. C’è stata una “picchiata” rispetto agli anni precedenti, il che è essenzialmente influenzato dalla lunghezza degli investimenti e dalla difficoltà di sostenere il tasso di uscita rispetto agli ingressi, ha affermato Iardella. “In passato, si recuperava l’investimento iniziale in 4 anni; oggi, invece, è necessario attendere un periodo di tempo molto più lungo, circa 10 anni.”
Il futuro: fee più basse e più fundraising dagli investitori individuali
Guardando avanti, ci sono alcuni punti che contribuiranno a cambiare il profilo del private equity a livello globale. In primo luogo, la riduzione delle commissioni di gestione: “Questo significa che i fondi stanno percependo una percentuale inferiore sui capitali gestiti”, e che, “pertanto, è diventato ancora più importante generare ritorni, e questo è anche un segnale della crescente competitività dell’industria nella raccolta dei fondi. Di conseguenza, i fondi tendono a offrire rendimenti più bassi, o in alternativa, a dare ai propri investitori la possibilità di investire in forma diretta.”
A cambiare, però, saranno anche le sorgenti della raccolta di capitali per i fondi di private equity, con una maggiore importanza dei fondi sovrani e degli investitori individuali. Secondo le previsioni di Bain & Co, fra il 2023 e il 2033, il 35% della crescita nella raccolta proverrà dai fondi sovrani, cioè dagli Stati. “Molto di questo ha a che fare con i fondi industriali, ma non sono gli unici attori: ci sono anche fondi sovrani da paesi come l’Australia, Singapore e altri, che stanno diventando sempre più influenti nel panorama globale.”
Un altro 25%, però, deriverà dagli investitori individuali, segmentati in varie categorie patrimoniali, una componente quasi trascurabile nel passato: “Investitori high net worth, super high net worth e ultra high net worth, ora sono una fonte di crescita molto importante”, ha dichiarato Iardella. Che siano fondi sovrani o investitori ultra-ricchi, uno dei temi che impatterà l’industria del private equity è che, per raggiungere questi nuovi soggetti, “occorrono team che si occupano di fundraising molto più grandi rispetto al passato. Questo è tipico dei fondi di grande scala, mentre pochi fondi più piccoli tendono a concentrarsi su nicchie di mercato, attirando investitori molto affluent.”
Le notizie di operazioni di investimenti diretti da parte di grandi banche che curano il segmento ultra-high-net-worth o da parte dei family office, ha aggiunto Iardella, creano una concorrenza parziale sulle stesse aziende – con alcune differenze. “È ovvio che i Family Offices abbiano una vocazione di deal abbastanza diversa rispetto ai fondi tradizionali. Infatti, mentre i fondi di private equity raccolgono capitali per fare fundraising e devono restituire i guadagni agli investitori per raccogliere fondi nel futuro, i family office hanno una natura permanente: una volta che investono, non hanno bisogno di restituire capitale per raccoglierne di nuovo”, ha affermato il responsabile di Bain. “Per questo motivo, non sempre completano gli stessi deal, ma spesso partecipano alle stesse operazioni.”