- Nel caso di Fineco su 66,3 miliardi di euro di masse afferenti alla raccolta gestita, più di metà sono all’interno di contratti di consulenza a parcella
- Panebianco: “Mi aspetto che il numero di aziende che offriranno servizi esclusivamente basati su fee di advisory aumenterà nel tempo”
L’industria della consulenza finanziaria, in attesa dei dettami derivanti dalle normative in corso di discussione, sta vivendo una fase di transizione. A dieci mesi dalla fumata bianca del Consiglio europeo alla Retail investment strategy (Ris), il pacchetto di norme che mira a introdurre nuovi requisiti di trasparenza sui costi dei prodotti di investimento oltre che sul loro rapporto qualità-prezzo, l’adozione della direttiva non sembrerebbe di fatto all’orizzonte. Ma mentre ci si avvia verso quello che appare come un progressivo ammorbidimento, in particolare in tema di incentivi, continuano le sperimentazioni di modelli alternativi di consulenza.
Modelli di remunerazione ai raggi X
Come evidenziato nella tabella, 17 su 18 operatori analizzati adottano attualmente modelli basati unicamente sulle retrocessioni, ovvero in cui i costi dei prodotti incorporano la remunerazione per l’attività di consulenza. Ma a dominare è al momento il modello misto, che vede sommare alle retrocessioni un costo esplicito per la consulenza evoluta. “Sono invece ancora poche le realtà che oggi prevedono un servizio di fee only, ovvero che si fanno pagare esclusivamente dal cliente per l’attività di consulenza. In altre parole, i consulenti non ricevono altre forme di remunerazione dalle società prodotto”, spiega Mauro Panebianco, partner di PwC Italia e asset & wealth management leader. Nel dettaglio, si tratta di Banco Bpm, Bper Banca, Fineco, Finint, Credem e Ubs. In Azimut e Banca Generali la consulenza viene invece in parte remunerata in modo esplicito, ovvero le retrocessioni percepite vengono restituite in tutto o in parte ai clienti.
I casi di Fineco, Crédit Agricole e Finint pb
Da un’analisi a campione condotta da We Wealth emerge nello specifico come nel caso di Fineco su 66,3 miliardi di euro di masse afferenti alla raccolta gestita (a marzo 2025), più di metà sono all’interno di contratti di consulenza a parcella, che prevedono il pagamento di una fee di consulenza da parte del cliente e la retrocessione delle commissioni al cliente. Per quanto riguarda l’utilizzo del servizio di consulenza evoluta da parte della rete di consulenza dell’istituto guidato dal ceo Alessandro Foti, il 98,5% degli oltre 3mila professionisti ha attivo almeno un contratto di consulenza a parcella, mentre oltre il 58% ha almeno metà del proprio portafoglio in gestione tramite questa modalità. Quanto a Finint Private Bank, invece, la penetrazione complessiva del modello fee on top rispetto alle masse gestite è del 14%, mentre il servizio fee only pesa il 30%. Il restante 56% fa riferimento alla consulenza di base.
Altro caso quello di Crédit Agricole Italia in cui, stando a quanto risulta a We Wealth, i servizi di consulenza evoluta – che prevedono una fee on top rispetto al costo degli strumenti finanziari – valgono il 2,9% delle masse complessive; la consulenza di base vale poi il 69,5% mentre il 27,6% rientra nel perimetro dell’appropriatezza, vale a dire quei clienti che hanno dichiarato nel questionario Mifid di non avvalersi della consulenza della banca ma di procedere in totale autonomia nella sottoscrizione di strumenti finanziari (e che non possono sottoscrivere polizze d’investimento vita e gestioni patrimoniali, in quanto in conflitto d’interesse rispetto al modello scelto).
“Una fee per un servizio a valore aggiunto”
“I gruppi internazionali sono quelli che tendono maggiormente a un modello di consulenza evoluta, che non prevede solo la mera gestione degli attivi finanziari e del portafoglio ma anche una serie di servizi ancillari legati a logiche goal based, vale a dire una consulenza basata sugli obiettivi di medio-lungo periodo dell’investitore e della sua famiglia”, racconta Panebianco. “Le stesse piattaforme di consulenza si stanno sempre più evolvendo sulla base di questo approccio, al punto che si evidenzia una compartecipazione dell’investitore alla costruzione del portafoglio, specie all’estero”, aggiunge l’esperto. “In questi casi, la fee è giustificata appunto dal servizio a valore aggiunto, un servizio di pianificazione successoria, pianificazione finanziaria, ottimizzazione fiscale e customer experience”.
Fatte queste premesse, secondo Panebianco la mappatura evidenzierebbe di fatto un progressivo passaggio da un modello basato su una remunerazione derivante unicamente dalle retrocessioni a un modello esclusivamente basato su fee legate ai servizi di advisory. E l’evoluzione regolamentare potrebbe ulteriormente favorire questo switch. “Mi aspetto che il numero di aziende che offriranno servizi esclusivamente basati su fee di advisory aumenterà nel tempo, spinti dalle nuove norme che entreranno in vigore. In effetti, le retrocessioni non saranno abolite, ma saranno sempre di più difficile attuazione”, afferma l’esperto. Ricordando infine come la normativa potrebbe incentivare anche una maggiore trasparenza dei modelli di pricing, riferendosi non solo alla Ris ma anche alla Financial data access (Fida), ovvero il regolamento in materia di accesso ai dati finanziari. “Con la Fida il cliente avrà la possibilità di condividere i dati relativi ai diversi operatori, favorendo una consulenza più olistica”, conclude Panebianco.
(Articolo tratto dal n° di maggio 2025 di We Wealth.
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