Una Europa radicalmente più unita e guidata da una visione politica – superando, di fatto, il paradigma dell’efficienza attraverso il libero scambio che, con il declino della fiducia a livello internazionale, rischia di indebolire l’Europa, la sua indipendenza e la sua esistenza. Sono queste le considerazioni che emergono leggendo Il Futuro della Competitività Europea, il documento programmatico redatto da Mario Draghi e presentato il 9 settembre.
Meno dipendente dall’estero e più politica: l’Ue di Draghi
Il coordinamento politico necessario per competere con le altre grandi economie globali, a partire da Cina e USA, richiede più che mai l’intervento del settore pubblico, anche a livello comunitario. Un argomento rimasto per anni un tabù, che ora Draghi affronta di petto, inserendolo fra le necessità inderogabili per la sopravvivenza del progetto europeo. Il rapporto sottolinea inoltre i limiti della dipendenza tecnologica e dell’approvvigionamento delle materie prime strategiche, creata nel tempo. Una situazione frutto della sola ricerca dell’efficienza di mercato, per cui è vantaggioso importare beni laddove costano meno. Tuttavia, dipendere dall’estero per prodotti critici potrebbe esporre l’Ue a ricatti e indebolirla politicamente. Con il deteriorarsi delle relazioni internazionali e la mancanza di fiducia nei tradizionali partner commerciali, l’autonomia si preserva sviluppando tecnologie internamente, anche quando il costo è superiore rispetto all’acquisto dall’estero.
In particolare, la Cina è spesso citata tra i partner commerciali più problematici. “La concorrenza cinese sta diventando acuta in settori come la tecnologia pulita e i veicoli elettrici…” scrive Draghi. “L’Ue deve affrontare un possibile compromesso: una maggiore dipendenza dalla Cina può offrire il percorso più economico ed efficiente per raggiungere i nostri obiettivi di decarbonizzazione. Ma la concorrenza statale cinese rappresenta anche una minaccia per le nostre industrie tecnologiche e automobilistiche”. Più in generale, ha affermato l’ex premier italiano, “ci affidiamo a una manciata di fornitori per le materie prime critiche, soprattutto alla Cina, anche se la domanda globale di questi materiali sta esplodendo a causa della transizione energetica… Se l’Ue non agisce, rischiamo di essere vulnerabili alla coercizione. In questo contesto, avremo bisogno di una vera e propria politica economica estera dell’Ue per mantenere la nostra libertà”.
L’Europa ha bisogno di investimenti, anche quelli delle famiglie
Il mercato dei capitali privati occupa un ruolo centrale nella visione strategica di Draghi, anche se la capacità di spesa pubblica rimane fondamentale per il cambio di passo richiesto all’Ue. Per evitare una stagnazione economica, dovuta anche al declino demografico del continente, l’ex premier ritiene essenziale aumentare gli investimenti. “Per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la capacità di difesa dell’Ue, il tasso di investimenti totali rispetto al Pil dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del Pil dell’Ue all’anno”, pari a circa 800 miliardi di euro, con un impatto più che doppio rispetto a quello avuto dal Piano Marshall tra il 1948 e il 1951.
Secondo le simulazioni del rapporto Draghi, le risorse per incrementare gli investimenti possono essere trovate in modo sostenibile, e “sarà cruciale mobilitare il finanziamento privato a tal fine” e “sarà essenziale integrare i mercati dei capitali europei per canalizzare meglio l’alto risparmio delle famiglie verso investimenti produttivi nell’Ue”. Tuttavia, “è improbabile che il settore privato possa finanziare la parte principale di questo investimento senza il supporto del settore pubblico”.
Mentre aziende e stati europei tendono a investire molto meno delle loro controparti americane, le famiglie europee sarebbero in una posizione favorevole per contribuire ai bisogni di finanziamento dell’economia. Tuttavia, “attualmente questi risparmi non vengono indirizzati in modo efficiente verso investimenti produttivi”. Nel 2022, i risparmi delle famiglie dell’Ue ammontavano a 1.390 miliardi di euro, rispetto agli 840 miliardi di euro degli Stati Uniti. Nonostante i risparmi più elevati, le famiglie europee hanno una ricchezza considerevolmente inferiore rispetto alle controparti statunitensi, principalmente a causa dei rendimenti inferiori sui mercati finanziari.
Secondo le simulazioni effettuate dal Fmi e dalla Commissione europea, alzare di cinque punti percentuali del Pil gli investimenti in Europa potrebbe incrementare il Pil del 6% entro 15 anni, con effetti solo temporanei sull’inflazione.
Su mercati e investimenti, il piano presentato da Draghi pone i politici europei di fronte a un’agenda ambiziosa. I mercati dei capitali dell’Ue, ancora frammentati, dovrebbero essere armonizzati con interventi che includono la creazione di una vera Autorità Europea unica per i mercati mobiliari, mettendo l’attuale Esma sullo stesso piano della Sec statunitense; l’armonizzazione dei quadri normativi sull’insolvenza e la rimozione degli ostacoli fiscali agli investimenti transfrontalieri; la creazione di una singola piattaforma centrale di controparte (CCP) e di un unico depositario centrale di titoli (CSD) per tutte le negoziazioni di titoli.
Anche gli investimenti delle famiglie dovrebbero essere coinvolti nel processo di stimolo alla produttività, indirizzandoli verso investimenti produttivi. “Il modo più semplice ed efficiente per farlo è attraverso i prodotti di risparmio a lungo termine (pensioni)”, ha scritto Draghi. “Per aumentare il flusso di fondi nei mercati dei capitali, l’Ue dovrebbe incentivare gli investitori al dettaglio attraverso l’offerta di schemi pensionistici di secondo pilastro, replicando i modelli di successo di alcuni Stati membri dell’Ue”. Il rapporto non menziona la necessità di vincolare i fondi pensione europei a investire una quota minima dei propri capitali all’interno dell’Ue, un tema talvolta sollevato da alcuni osservatori.
Gli unicorni? Si trasferiscono fuori dall’Ue
Tra il 2008 e il 2021, sono stati fondati in Europa 147 unicorni – startup che hanno superato una valutazione di 1 miliardo di dollari. Di questi, 40 hanno trasferito la loro sede all’estero. Tra Usa e Ue, scrive Draghi, si è ampliato il divario negli investimenti privati e pubblici dai tempi della crisi del 2008, contribuendo ad aggravare il ritardo dell’Europa nell’attrarre e sviluppare imprese innovative comparabili ai colossi tecnologici americani. Una parte della storia sta nel clamoroso divario che separa i mercati americano ed europeo nel venture capital, i fondi specializzati nel finanziamento di imprese innovative. “La frammentazione del Mercato Unico ostacola le aziende innovative che raggiungono la fase di crescita dal fare scalabilità nell’Ue, riducendo così la domanda di finanziamenti… La quota globale di fondi di venture capital raccolti nell’Ue è solo del 5%, rispetto al 52% negli Stati Uniti e al 40% in Cina”, afferma Draghi, sottolineando che il problema è più profondo. Nel frammentato mercato europeo, le prospettive di crescita delle imprese sono “più deboli e richiedono finanziamenti inferiori”. Così, “molte aziende europee ad alto potenziale di crescita preferiscono cercare finanziamenti da fondi di venture capital statunitensi e scalare nel mercato statunitense, dove possono raggiungere più facilmente una vasta copertura di mercato e ottenere profitti più rapidamente”.