La Legge di Bilancio 2024 – come ogni anno – interviene in materia di pensioni. Da un lato lascia inalterati i canali di uscita tradizionali, dall’altro prevede alcuni inasprimenti ai requisiti per il pensionamento anticipato (Quota 103) e per l’accesso alle altre due agevolazioni di Ape sociale e Opzione Donna. E soprattutto, non fa nulla per ridurre le disparità vigenti a carico dei “contributivi puri”, anzi le aggrava.
“Il sistema attuale – dice Alessandro Bugli, del Centro Studi di Itinerari previdenziali e socio dello studio legale THMR – sembra più concentrato su chi ha iniziato a lavorare prima del 1996, con tutele e integrazioni al minimo; e lascia i più giovani in un regime diverso e inspiegabilmente svantaggioso. La convergenza tra giovani e anziani è avvenuta sulla pensione di vecchiaia, avvicinando i misti ai contributivi puri, anche se forse si sarebbe dovuto agire al contrario. La grande sfida è ora comprendere quali tutele offrire in future riforme a coloro che abbiano iniziato a lavorare dopo il 1996”.
Il tallone d’Achille delle nuove pensioni
Un “tallone d’Achille” del sistema pensionistico, dove invece per tutti vale la regola del patto intergenerazionale per cui tutti i lavoratori attivi pagano i contributi e, peraltro, questi si usano per pagare le prestazioni di quanti sono effettivamente in pensione.
Quello che sarebbe lecito attendersi sarebbe una parificazione pressoché sostanziale tra lavoratori retributivi/misti (attualmente avvantaggi dalla legge Fornero) e i contributivi “puri”, senza creare riserve per gli uni o gli altri. “Invece, probabilmente giocando sul tempo visto che i primi pensionati interamente contributivi arriveranno solo tra il 2030/32, la Legge di Bilancio ha modificato in senso ancora più restrittivo i requisiti di accesso alla cosiddetta pensione anticipata contributiva – continua l’esperto – Dal 2024 sarà possibile accedervi solo se l’importo dell’assegno sarà pari almeno a 3 volte (in luogo del precedente 2,8) il valore dell’assegno sociale , tranne nei casi di lavoratrici madri, che vedranno il tetto a 2,8 volte la pensione sociale con un figlio e 2,6 volte in presenza di più figli. Viene poi stabilito che l’assegno così ottenuto non potrà eccedere le 5 volte il trattamento minimo Inps (cioè, circa 2.840 euro lordi al mese) sino al raggiungimento dei 67 anni (cioè, l’età di vecchiaia). Al contrario, ma non è chiaro il filo rosso tra i due interventi, per quanto riguarda l’accesso alla pensione di vecchiaia, la manovra (che forse avrebbe dovuto estendere la regola dei contributivi puri ai retributivi, per una lunga serie di ragioni) per il 2024 elimina il limite di 1,5 volte l’assegno sociale per l’accesso alla pensione di vecchiaia a 67 anni con almeno 20 anni di contributi, mentre restano i requisiti di accesso alla vecchiaia con 71 anni d’età e almeno 5 anni di contributi a prescindere dell’importo del trattamento che comunque non beneficia di alcuna integrazione”.
Un sistema sempre più fragile
Resta, insomma un difetto di fondo che rischia di creare ulteriori crepature in un sistema già fragile: “vale forse la pena – dice Bugli – di approfondire meglio questo tema, nei prossimi interventi di Governo”.
Quanto all’inasprimento generale delle regole per l’accesso alle agevolazioni, invece la direzione sembra coerente con i moniti sulla sostenibilità di sistema di matrice europea e internazionale. “Gli attori internazionali hanno chiesto e continuano a chiedere all’Italia di evitare il più possibile gli scivoli – dice Bugli – ed è per questo che i bulloni vengono stretti. Il legislatore tende a disincentivare l’utilizzo di questo strumento. Si tratta di trovare un modo di conciliare le regole di uscita dal mercato del lavoro con l’effettività del mercato del lavoro stesso. Il tutto evitando di lasciare i lavoratori senza reddito a qualche anno dalla pensione, ma allo stesso tempo svolgendo l’esercizio in modo organico e coerente con le mutate esigenze e aspettative di vita”.
Ma andiamo con ordine, partendo dalla Quota 103, prorogata con qualche cambiamento: la norma consente di andare in pensione anticipata con 62 anni di età e 41 di contributi.
Quota 103: le novità
Il cambiamento è che l’intera pensione sarà calcolata con il metodo di contributivo (e non misto), anche per la parte di anzianità maturata con il sistema retributivo, vale a dire per i periodi di lavoro antecedenti il primo gennaio 1996 per coloro che al 31 dicembre 1995 avevano più di 18 anni di anzianità e fino al 31 dicembre 2011, quando la legge Fornero ha introdotto per tutti i lavoratori il contributivo pro rata. Inoltre, la misura dell’assegno non potrà risultare superiore a 4 volte il trattamento minimo Inps (poco più di 2.270 euro lordi al mese) fino al compimento dei 67 anni di età (la cifra era di 5 volte il trattamento minimo fino al 31 dicembre 2023).
Da evidenziare poi che per chi opta per Quota 103 (come per Quota 100 e 102) è vigente il divieto di lavorare e quindi l’impossibilità di cumulare redditi da lavoro con quelli da pensione fino al raggiungimento dei 67 anni di età. La percezione di eventuali redditi da lavoro comporta dunque la sospensione del trattamento pensionistico in tutte le circostanze, tranne una: la cumulabilità è ammessa per redditi da lavoro occasionale che non superino complessivamente i 5.000 euro lordi l’anno. Resta infine confermata la possibilità per il lavoratore dipendente che, dopo aver maturato i requisiti per accedere al pensionamento anticipato continua a lavorare, di chiedere che la contribuzione a suo carico – pari al 9,19% – venga inserita in busta paga, mentre la quota a carico del datore di lavoro continuerà a essere versata all’INPS.
Un affare per lo Stato, non per il lavoratore
Attenzione, però, perché la parte di contributi così incassata non contribuirà a incrementare la pensione e verrà assoggettata a tassazione IRPEF. Insomma, riprendendo le parole del Prof. Alberto Brambilla, presidente del centro studi di Itinerari previdenziali, “un affare per lo Stato ma non per il lavoratore, per il quale, potendo, sarebbe più conveniente optare per l’uscita con 42/41 anni e 10 mesi di anzianità contributiva, con solo 3 mesi di finestre mobili e senza ricalcolo contributivo, divieto di cumulo tra redditi da pensione e da lavoro e riduzione dell’assegno pensionistico”.
Prorogati, con la stessa logica della stretta, anche Ape sociale e opzione donna. Per l’Ape, cresce il requisito anagrafico da 63 a 63 anni e 5 mesi, e l’assegno – non cumulabile con reddito da lavoro salvo occasionale fino a 5000 euro – è calcolato col sistema misto ma con limitazioni riguardanti l’importo (per un massimo di 1.500 euro lordi mensili) e l’assenza di tredicesima e adeguamenti all’inflazione fino al raggiungimento, a 67 anni di età anagrafica, della pensione di vecchiaia.
Ape sociale e Opzione donna: parametri sempre più restrittivi
Ape sociale è rivolto a categorie molto specifiche di lavoratori: devono avere 30 anni di contribuzione ed essere disoccupati a seguito di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale; o avere disabilità pari o oltre il 74%; essere caregiver che assistono da almeno 6 mesi persone disabili conviventi, con disabilità grave in base alla legge 104 del 1992, siano di primo o secondo grado di parentela (solo per over 70); o infine dipendenti che svolgono mansioni cosiddette “gravose”, con almeno 36 anni di contribuzione.
Anche per l’opzione donna, i principi rimangono fermi e, se si hanno figli, si può uscire prima dal sistema. Tuttavia, l’età passa da 60 anni e 35 anni di contributi a 61 anni e 35 anni di contributi. Anche il questo caso l’assegno è ricalcolato con il metodo contributivo, con un taglio quindi dell’18-20% (stime Centro Studi Itinerari Previdenziali). Dallo scorso anno, è bene ricordare, opzione donna è vincolata a situazioni molto particolari – che sono sovrapponibili a quelle già elencate per Ape sociale – e conseguentemente il suo utilizzo si è molto ridotto. “Rispetto allo scorso anno, viene però alzato il requisito anagrafico e con riduzione di 1 anno per ogni figlio nel limite massimo di due. Confermati invece il calcolo della pensione con metodo interamente contributivo (con una riduzione possibile e sensibile dell’assegno che si a cui si avrebbe diversamente diritto, andando in pensione per le vie ordinarie) e le finestre mobili di 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 mesi per le autonome. In pratica, una lavoratrice autonoma senza figli accederà a Opzione Donna a 62 anni e mezzo. La pensione maturata con Opzione Donna è pienamente cumulabile con altri redditi da lavoro al pari di qualsiasi altra pensione”.
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