Durante un recente viaggio in Scozia, mi ha molto colpito una locandina pubblicitaria – non si trattava di whisky o maglioni in Shetland, bensì di una sorta di “pubblicità progresso”. Tradotto liberamente, suona pressappoco così: siate gentili con i funzionari pubblici, loro saranno più gentili con voi.
Tipico spirito anglosassone, che ho ritrovato, per esempio, nel rispetto dei limiti di velocità da parte degli automobilisti scozzesi.
L’esempio scozzese (e gli altri): il rapporto reciproco
Le considerazioni, e gli stereotipi, al riguardo si sprecano; mi sembra però che, in fin dei conti, l’osservanza della legge da parte di quel popolo nasca più da un senso di rispetto verso le istituzioni (e il prossimo, in generale), che da un timore delle conseguenze (che ricadrebbero sulla propria persona).
In altri termini, il cittadino scozzese (come pure quello tedesco, svedese, etc.) si sente rispettato dalle istituzioni, e non rispettarle significa “tradire” un rapporto di reciproca fiducia.
Certamente il sistema sanzionatorio (e la serietà con cui viene applicato, caricandolo di credibilità) gioca un ruolo indiscutibile, ma non mi sembra il vero collante della convivenza civile di quei paesi.
Se un fenomeno si protrae per decenni o secoli, le ragioni prescindono dal contingente e affondano le radici in un comune sentire, profondo e condiviso.
Insomma, secondo me i cittadini scozzesi rispettano le regole, perché le regole rispettano i cittadini scozzesi.
Si tratta quindi di un rapporto reciproco, dove il cittadino prende sul serio le prescrizioni che gli provengono dalla società e trova tendenzialmente giusto osservarle, innanzitutto perché chi legifera, applica, giudica in base a quelle prescrizioni prende sul serio e rispetta il cittadino.
Il caso italiano
Come si può innescare un rapporto del genere in Italia, dove la storia non sembra caratterizzata da questo rapporto (ma da un “gioco al ribasso”)?
Se è vero che il pesce puzza dalla testa, occorre partire dalle leggi: occorre cioè legiferare in modo chiaro e rispettoso, senza incorrere in “furberie” che finiscono per legittimare comportamenti poco virtuosi (norme retroattive, cambiamenti repentini che rendono inaffidabili le norme di volta in volta emanate, etc.).
Ma non solo: occorre proseguire nei comportamenti quotidiani da parte delle forze dell’ordine, dei funzionari pubblici, dei giudici etc.
Si finisce ovviamente per toccare aspetti culturali di un paese, talmente radicati da richiedere generazioni per essere modificati.
Personalmente, però, mi accontenterei che la prua della nave puntasse nella direzione giusta, a maggior ragione se la navigazione di fronte a noi è virtualmente senza fine.
È probabile che non pochi lettori siano d’accordo con le mie considerazioni, ma che mi chiedano: sì, ma come?
Credo molto nel metodo e nell’approccio: si tratta innanzitutto di avere degli obiettivi e delle priorità chiare.
Quelli che, per scendere sul piano pratico, mi sembra manchino nell’ambito della riforma fiscale attualmente in cantiere.
Pensare di varare una corposa riforma affidandosi a circa 170 esperti (sic!), che entro il 20 settembre (2023 – ancora sic!) debbono proporre un articolato normativo, da sottoporre poi a un organo di coordinamento, non mi sembra il metodo giusto: significa dover amalgamare (poi) qualcosa che nascerà in forma assai variegata.
A mio modesto avviso occorreva impostare (prima) una forma comune di tecnica normativa (una sorta di “stile” di legiferazione), ispirata da (poche) priorità chiare e concrete (per esempio, sacrificare un poco della sottile e bizantina equità fiscale in favore di una più rozza, ma più chiara e inequivocabile nettezza del dato normativo).
Infine, avrei ristretto moltissimo la platea di esperti (in cui mancano purtroppo studiosi dotati di spirito critico, come Raffaello Lupi o Dario Stevanato) e altrettanto allungato i tempi di elaborazione.
Presto e bene raro viene.
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