Negli ultimi anni, le contestazioni per esterovestizione societaria si sono moltiplicate. L’Agenzia delle Entrate, infatti, intensifica i controlli per verificare se una società formalmente residente all’estero sia in realtà gestita dall’Italia e debba quindi essere considerata fiscalmente residente nel nostro Paese. Tuttavia, questo tipo di accertamenti deve rispettare il principio della libertà di stabilimento sancito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue). Quando l’Amministrazione finanziaria eccede, la contestazione può risultare illegittima.
Cosa si intende per esterovestizione societaria?
L’esterovestizione societaria si verifica quando una società è registrata in un Paese estero, ma l’Amministrazione finanziaria ritiene che la sua gestione effettiva avvenga in Italia. In tal caso, l’Agenzia delle Entrate può riqualificare la società come fiscalmente residente in Italia, con tutte le conseguenze fiscali del caso, tra cui il pagamento delle imposte in Italia.
Quando una società è considerata fiscalmente residente in Italia?
Secondo la normativa italiana, una società è considerata residente in Italia se:
- ha la sede legale in Italia;
- ha la sede dell’amministrazione in Italia;
- l’oggetto principale dell’attività è svolto in Italia.
Se almeno uno di questi criteri è soddisfatto, l’Agenzia delle Entrate può sostenere che la società sia italiana ai fini fiscali. Tuttavia, questa valutazione deve basarsi su elementi oggettivi e non su mere presunzioni.
Il principio di libertà di stabilimento e i limiti agli accertamenti del Fisco
L’Unione europea garantisce la libertà di stabilimento attraverso gli articoli 49 e 54 Tfue. Questo principio consente alle imprese di scegliere liberamente il Paese in cui stabilire la propria sede e operare senza subire discriminazioni o restrizioni ingiustificate.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea (Cgue) ha più volte ribadito che uno Stato membro non può limitare questa libertà imponendo presunzioni assolute di residenza fiscale, salvo che vi sia un’effettiva assenza di sostanza economica nella sede estera. Le sentenze Cadbury Schweppes (C-196/04), Centros (C-212/97) e Inspire Art (C-167/01) confermano che un’impresa può legittimamente stabilire la propria sede in uno Stato membro per beneficiare di un regime fiscale più favorevole, purché vi sia una reale attività economica.
Quando una contestazione per esterovestizione è illegittima?
Un accertamento per esterovestizione può risultare illegittimo quando l’Agenzia delle Entrate:
- a) si basa esclusivamente sulla residenza degli amministratori o dei soci, senza dimostrare che le decisioni strategiche siano prese in Italia;
- b) assume che una sede estera sia fittizia solo perché ha una struttura operativa minima;
- c) non considera la reale attività economica svolta all’estero;
- d) applica criteri presuntivi senza verificare caso per caso la concreta gestione della società.
Se l’amministrazione finanziaria non dimostra in modo rigoroso l’assenza di una reale attività economica nello Stato estero, la contestazione può essere annullata dal giudice tributario per contrasto con il diritto dell’Unione europea.
Come difendersi da una contestazione fiscale ingiusta
Le contestazioni per esterovestizione sono spesso complesse e devono essere affrontate con un’adeguata strategia difensiva. Il diritto dell’Unione europea tutela la libertà di stabilimento e impone agli Stati membri di non adottare misure che ostacolino la mobilità delle imprese. Se un accertamento fiscale si fonda su presunzioni e non su prove concrete, può essere contestato con successo dinanzi alla giustizia tributaria.