C’è molto più di quanto appaia in superficie nel calo del dollaro e nel crollo di valore dei Treasury Usa in questa fase di forti dispute commerciali. Di norma, quando i mercati internazionali entrano in crisi, è negli Stati Uniti – nei Treasury Usa e nel dollaro – che gli investitori cercano riparo. Ora non è più così. E questo fa una differenza sostanziale per l’economia americana: in meglio o in peggio? E cosa cambia per chi oggi investe e vuole capire se è il caso di proteggersi da ulteriori cali del dollaro?
Dall’annuncio del Liberation Day, con cui Donald Trump ha comunicato un’ondata di nuovi dazi, l’indice del dollaro – che ne misura la forza rispetto alle principali valute – ha perso fino al 4,8%. Un calo analogo si è registrato anche contro l’euro. I dazi erano attesi, già promessi in campagna elettorale, ma molti analisti ritenevano che avrebbero rafforzato il biglietto verde, non il contrario. L’incertezza, nel mondo finanziario che conoscevamo, ha sempre favorito il dollaro. Questa volta, invece, il suo indebolimento rappresenta “il chiaro segno di una crisi di sfiducia generalizzata verso tutte le attività denominate in dollari (titoli di Stato, azioni, debito privato), che ha pochi precedenti nella storia”, ha dichiarato su La Voce l’economista Tommaso Monacelli (Bocconi).
Dazi, sfiducia e volatilità: il mix che affossa il biglietto verde
Ma l’America ci guadagna? Nell’immediato, sì, perché si sono rivalutate le attività che gli Stati Uniti detengono in monete straniere: “il grande assicuratore mondiale non sta dunque assorbendo perdite per stabilizzare il sistema finanziario globale, come tipicamente accade nelle fasi di crisi”, ha scritto Monacelli. Tuttavia, mentre il resto del mondo si libera delle attività denominate in dollari, percepite come improvvisamente meno sicure, “gli Usa vedono deteriorarsi la propria posizione finanziaria dal lato delle passività”. Se i rendimenti dei titoli di Stato americani aumentano, il problema del debito federale si aggrava: rifinanziarlo costa di più e ciò contribuisce ad aumentare ulteriormente il disavanzo. Se a questo si aggiunge un rischio di recessione, con conseguente calo delle entrate fiscali, il pericolo di finanze pubbliche fuori controllo diventa ancora più evidente. È anche per questo che, alla fine del ragionamento compiuto da molti trader, conviene cercare rifugio altrove: bund tedeschi, franco svizzero, yen.
“Il dollaro statunitense è da tempo la valuta di riserva globale, sostenuto dall’affidabilità dei mercati finanziari americani. L’approccio del Presidente Trump mette certamente in discussione questo status quo”, ha dichiarato a We Wealth Michał Jóźwiak, analista di mercato di Ebury. “In un contesto di incertezza estrema, paragonabile alla Grande Crisi Finanziaria e all’era del Covid-19, il biglietto verde ha temporaneamente perso il suo status di bene rifugio”.
“Il mondo guarda all’euro come al sostituto del dollaro come riserva di valore e rifugio sicuro, con mercati sufficientemente ampi e liquidi per accogliere l’afflusso. Non sorprende che, dopo il franco svizzero, l’euro sia la valuta che ha registrato la migliore performance a livello mondiale dopo l’ironico ‘giorno della liberazione’, con un aumento del 5% rispetto al dollaro, mentre il divario tra il tasso delle obbligazioni tedesche a 10 anni e i Treasury statunitensi a 10 anni è aumentato di 50 punti base nello stesso periodo”, ha aggiunto lunedì un aggiornamento della stessa Ebury.
Come si proteggono investitori e imprese nella nuova era del Forex
La debolezza del dollaro durerà? “La riconfigurazione delle catene di approvvigionamento globali potrebbe contribuire ad accelerare il processo di dedollarizzazione, con un graduale spostamento verso le valute locali che potrebbe proseguire”, ritiene Jóźwiak. “Tuttavia, è bene non trarre conclusioni affrettate: la situazione è estremamente dinamica, come dimostrano gli eventi degli ultimi giorni”.
“Sì, c’è un chiaro rischio che le politiche di Trump, e soprattutto la sua tolleranza per la volatilità di mercato, abbiano minato il valore di safe haven del dollaro, al punto che perfino un miglioramento del sentiment sui dazi potrebbe non essere sufficiente a far riprendere in modo sostanziale il biglietto verde”, ha affermato a questo giornale Francesco Pesole, FX strategist di ING. “Indubbiamente, se Trump non darà segnali di voler ridimensionare i dazi verso la Cina, il dollaro dovrà scontare un impatto significativo sulle prospettive di crescita degli Stati Uniti”.
Più netto Giordano Lombardo, Founder, CEO e Co-CIO, Plenisfer Investments SGR: “Pensiamo che il calo del dollaro sia destinato a continuare. Pensiamo che nei prossimi tre anni il cambio del dollaro, ponderato per gli scambi commerciali [dollar index], possa scendere del 20-30%. Il dollaro era semplicemente troppo costoso. È stato sostenuto da un enorme incremento della spesa fiscale negli Stati Uniti negli ultimi cinque-otto anni. Trump ha fatto scoppiare la bolla dell’eccezionalismo americano. Ora assisteremo ad un trend secolare di deflussi di capitale dagli Stati Uniti e di flussi verso altre aree, soprattutto Europa e mercati emergenti”.
In questo nuovo contesto, gli investitori e gli imprenditori devono evitare gli indici globali denominati in dollari per il rischio di cambio potenzialmente svantaggioso? La domanda è più attuale che mai, soprattutto perché il costo per coprirsi da tale rischio, come ha spiegato Pesole, è “molto elevato: come si vede dal grafico della implied volatility su EUR/USD a 3 mesi, si è registrato un netto aumento” – ai massimi da fine 2022. “Ritengo che, una volta superata la fase più acuta di volatilità sui mercati, le decisioni d’investimento su asset americani terranno maggiormente conto del rischio FX, vista l’incertezza politico-economica negli Stati Uniti. Di conseguenza, sia i livelli forward del dollaro che la volatilità implicita nel mercato delle opzioni avranno un’influenza crescente nelle strategie di asset allocation”.
In pratica, se la stabilità del dollaro non può più essere data per scontata, un’azienda europea che vende in dollari dovrà spendere di più per coprire il rischio di cambio sui ricavi. Lo stesso vale per un fondo che investe in asset Usa. Una copertura FX più costosa può disincentivare l’esposizione al rischio dollaro, spingendo gli investitori verso asset in valuta locale o in aree a minore incertezza valutaria, come l’Eurozona o il Giappone.
Per le aziende, in particolare, “la copertura dal rischio di cambio è senza dubbio uno strumento molto utile nella gestione del rischio finanziario”, ha sottolineato Jóźwiak. “Lo sviluppo di una solida politica in materia di esposizione valutaria è importante indipendentemente dalle condizioni di mercato. In un momento come quello attuale, in cui l’incertezza e la volatilità sono quasi senza precedenti, il tema assume ancora maggiore rilevanza, poiché le aziende che non hanno predisposto in anticipo una strategia di gestione del rischio di cambio potrebbero aver già sperimentato direttamente le conseguenze. In Ebury, riteniamo che le tecniche e gli strumenti da adottare dipendano dalla struttura del commercio aziendale, con la protezione dei margini operativi core che rappresenta la chiave per una gestione responsabile del rischio valutario”.