L’inflazione negli Stati Uniti ha toccato la vetta del 6,2% in ottobre di quest’anno. La zona euro ha raggiunto il 4,1% sospinta dalle dinamiche del mercato dell’energia. In Italia siamo al 3%. Niente di cui spaventarsi: le autorità dell’Unione si auguravano un’inflazione al 2%. Ma motivo per preoccuparsene, almeno un po’, questo sì. Perché l’inflazione, anche in valori contenuti, riduce il potere di acquisto del denaro nel lungo termine e il nostro è un Paese con una spaventosa quantità di liquidità parcheggiata nei conti correnti.
Sul tema il Wall Street Journal ha pubblicato un breve ma puntuale articolo di Shlomo Benartzi, economista comportamentale che ha lavorato con il premio Nobel Richard Thaler alla realizzazione del programma di incentivazione alla contribuzione previdenziale volontaria SMarT (Save More Tomorrow), che di lì in poi avrebbe costituito la base di molti programmi previdenziali di secondo pilastro negli Stati Uniti, UK e Australia.
Benartzi studia cose tipo la funzione del “choice engineering” o struttura di scelta. Per esempio, come aumenta la contribuzione volontaria se il sistema di scelta prevede che si debba cliccare la casellina “No” per non aderire al programma di contribuzione suggerito (opt-out) invece che sul “Sì” per conformarvisi (opt-in). Le dinamiche di opt-out vs opt-in dimostrano che l’opzione di default, come il banco, vince sempre perché il nostro cervello tende a evitare la fatica di scegliere, anche se la scelta si limita a flaggare una casellina. Questo genere di bias intervengono continuamente nella nostra vita, anche nelle scelte finanziarie, e soprattutto in quelle a lungo termine. La maggior parte delle persone fatica a dominare il concetto di interesse composto, dove ogni anno l’imponibile cambia incorporando l’importo del tasso calcolato sull’imponibile dell’anno precedente, così come l’effetto che l’inflazione, anche quella piccola, anche un banale 1%, può avere sui risparmi nel lungo termine, magari a 20/30 anni, la lunghezza media della vecchiaia. Il bias di fondo in questo caso è che tutti tendiamo a concentrare l’attenzione sul valore nominale del denaro invece che su quello reale, che si potrebbe più efficacemente definire potere d’acquisto.
L’autorevole Wall Strett Journal affida a Shlomo Benartzi il compito di ricordarci come funziona il meccanismo dell’inflazione con l’efficacia della vecchia “regola del 72”: per valutare in quanti anni un investimento può raddoppiare a un dato tasso di interesse, basta dividere il tasso di interesse per 72. Per la stessa legge, all’inverso, se si vuol sapere in quanto tempo un dato importo si dimezzerà a causa della costanza di un dato tasso di inflazione, basta dividere 72 per il tasso di inflazione. Esempio: 200 mila euro al tasso annuale di inflazione del 2,5% si dimezzano in 28 anni circa, in 13 al tasso Usa del 3,4%. Ovvero entro 28/13 anni l’importo originale vale la metà o ciò che all’inizio comprava costa il doppio. Ma anche situazioni di inflazione all’1% provocano una diminuzione del valore dei risparmi nel tempo perché se 1 è un numero piccolo, è il tempo a renderlo importante. Per questo l’inflazione, seppur a livelli minimi, interessa anche le persone che si sentono protette da investimenti in bond considerati sicuri. Con l’1% di inflazione il valore di un buono del tesoro a 30 anni può perdere il 20%. Abbiamo chiesto a un esperto di economia comportamentale che lavora con i consulenti finanziari di spiegarci meglio l’inghippo e come proteggerci: Enrico Maria Cervellati, Professore Associato di Finanza Aziendale alla Link Campus University di Roma.
“Benartzi chiarisce molto efficacemente che l’errore comporta- mentale principale è la cosiddetta “illusione monetaria” che ci induce a ragionare in termini nominali invece che in termini reali, ignorando quindi l’effetto dell’inflazione. A mio modo di vedere c’è anche un altro tema molto importante – che Benartzi non cita espressamente in questo articolo, ma ha ampiamente investigato in altre ricerche – cioè l’evidenza per la quale noi umani abbiamo grandi difficoltà a considerare gli effetti del tempo, a guardare in là, soprattutto nel lungo periodo. È il motivo per cui, per esempio, diamo molta più importanza al consumo presente perché ci gratifica immediatamente – cioè attiva i circuiti cerebrali della ricompensa, il cosiddetto “sistema 1” (che governa il sistema limbico), quello “più emotivo” – sottostimando invece il beneficio futuro di risolvere le nostre esigenze domani”.
Inoltre, abbiamo una naturale resistenza a immaginarci nel futuro, tant’è che alcuni economisti comportamentali per superare il problema utilizzano tecniche di age-processing rendering: “in sostanza – continua Cervellati – creano un avatar virtuale dell’interlocutore e lo invecchiano per proiettarlo nel suo futuro, come fanno alcune App disponibili per smartphone, tipo face booth (io l’ho fatto, sono uguale a mio padre)”.
Poiché alcune persone “digeriscono” bene i numeri e altre meno, strumenti di visualizzazione possono aiutare a ragionare sul domani, anche semplici disegni per “vedere” cosa può accadere in futuro come conseguenza di determinate scelte (o non scelte). “Per esempio – continua il professore – si può mostrare a una persona come un tasso di inflazione storico al 2,5% in 28 anni dimezzi il potere d’acquisto dei suoi soldi lasciati sul conto corrente attraverso l’immagine di una casa (nel caso l’obiettivo della liquidità inerte sia, per esempio, comprare una casa al figlio) sostituita dall’immagine di una casa grande la metà o fisicamente dimezzata”. Una volta che il cliente ha compreso l’effetto dell’inflazione nel tempo si può passare a consigliare gli strumenti che meglio ne contengono il rischio, “come i mutui a tasso fisso o le rendite a contribuzione fissa anziché a remunerazione fissa. Oppure, nel caso si stia valutando l’acquisto di una polizza, spingerlo a considerare un importo futuro maggiore, facendolo riflettere sul reale potere di acquisto da qui a 20/30 anni di quell’importo garantito che oggi gli sembra più che sufficiente”.
(articolo tratto dal magazine We Wealth di novembre)
L’inflazione negli Stati Uniti ha toccato la vetta del 6,2% in ottobre di quest’anno. La zona euro ha raggiunto il 4,1% sospinta dalle dinamiche del mercato dell’energia. In Italia siamo al 3%. Niente di cui spaventarsi: le autorità dell’Unione si auguravano un’inflazione al 2%. Ma motivo per preocc…