Gli italiani che scelgono personalmente il proprio consulente finanziario considerano i costi associati al servizio come il criterio meno influente nella selezione del professionista, fatta eccezione per le ancor meno importanti raccomandazioni sui social. L’onere sostenuto per la consulenza, tipicamente incorporato nei prodotti finanziari, incide sulla selezione solo per il 7% dei decisori finanziari sondati dalla Consob nel suo ultimo rapporto sulle scelte di investimento delle famiglie italiane.
Il dato, di per sé, potrebbe sembrare ragionevole, se si considera che sono le doti tipicamente relazionali quelle che gli investitori considerano determinanti per la scelta del consulente finanziario. L’ultima indagine realizzata dalla Consob, tuttavia, ha escluso un paragrafo del sondaggio che, per alcuni anni, aveva messo in luce come una quota maggioritaria dei clienti non fosse consapevole di pagare il proprio consulente. Nel 2022, la percentuale di investitori assistiti da un advisor che si era detta non disponibile a pagare questo servizio aveva raggiunto il 57%. Assumendo che questa resistenza a pagare sia rimasta invariata, sorge il dubbio che i costi della consulenza finanziaria “non contino” nella scelta del professionista perché in molti ritengono che quest’ultimo lavori gratis, interamente pagato dalla banca di riferimento. Una percezione che le indagini Consob effettuate in passato avevano effettivamente rilevato.
Eppure, la trasparenza sui costi della consulenza è obbligatoria per legge. Ma non si può forzare il cliente a consultare la documentazione inviata. Alcuni mesi fa, un’indagine realizzata da Moneyfarm aveva sottolineato come fosse ancora poco compreso (e consultato) il rendiconto obbligatorio su costi e oneri, che ogni banca deve consegnare annualmente ai propri clienti. Il 48% degli investitori (non clienti Moneyfarm) aveva dichiarato di conoscere poco o per nulla questo rendiconto e che solo un investitore su tre, fra quelli che l’avevano letto, diceva di averlo trovato chiaro ed esaustivo. Eppure, è proprio all’interno di questo rendiconto che si può risalire a quanta parte delle commissioni pagate sui prodotti di investimento siano state “girate” al consulente finanziario sotto forma di retrocessione.
I costi? Nelle scelte di investimento sono quarti fra le priorità
Si potrebbe supporre che, in fin dei conti, agli italiani non interessi davvero sapere quanto spendono per investire. Tuttavia, un’altra sezione dell’indagine Consob 2024 ha mostrato, al contrario, che i costi stanno al quarto posto fra i criteri più importanti per le scelte di investimento, citati dal 28% del campione, dietro alla durata dell’investimento (35%), ai ritorni attesi (35%) e agli obiettivi di investimento (30%).
Il costo degli investimenti appare come un aspetto importante nella scelta, anche se, a quanto pare, non incide nella scelta del consulente, il che non sembra molto coerente con un sistema in cui il costo della consulenza tipicamente incide al rialzo sul costo del prodotto finanziario.
A sottolineare quest’ultima relazione, quella fra costo del prodotto e consulenza, è stata anche la corposa indagine effettuata dalla Commissione europea in preparazione della riforma degli investimenti al dettaglio (Ris), un insieme di misure attualmente in corso di approvazione che vede nel contenimento dei costi sostenuti dai piccoli risparmiatori uno dei suoi obiettivi dichiarati. In particolare, lo studio europeo aveva mostrato come, in media, i prodotti che contengono retrocessioni – la forma di pagamento integrata alle commissioni sui fondi e le polizze – costino mediamente il 24-26% in più dei prodotti finanziari che ne sono privi.
La ricerca accademica è molto chiara nel considerare decisivo il controllo dei costi sugli investimenti, se si intende aumentare le prospettive di guadagno, specialmente se si osservano i risultati su lunghe distanze. In un portafoglio bilanciato di 10.000 euro, aveva calcolato l’Autorità europea degli strumenti finanziari nel 2022, un investitore al dettaglio europeo avrebbe pagato 2.000 euro di costi in un orizzonte di cinque anni, contro i 1.190 euro di un investitore istituzionale – un soggetto che riesce a risparmiare molto più facilmente sugli oneri. Risultato: fra il 2016 e il 2020 il piccolo risparmiatore avrebbe portato il suo capitale iniziale a quota 12.100 euro, al netto dei costi, mentre l’investitore istituzionale, con la medesima strategia, avrebbe toccato i 13.200 euro. Detta altrimenti, questa differenza di costo in soli cinque anni avrebbe mangiato circa un terzo del profitto altrimenti ottenuto da un investitore istituzionale. “Questi risultati”, aveva sostenuto l’Autorità, “mostrano quanto sia cruciale il ruolo dei costi nella valutazione dell’esito di un investimento”.