Archiviati i primi 100 giorni di Trump, è davvero l’inizio della fine per la centralità politica degli Stati Uniti, quella economica del dollaro e quella finanziaria di Wall Street? E se sì, fino a che punto? Per UBS Wealth Management, le conclusioni non dovrebbero essere affrettate.
Il rischio di un mercato ribassista esiste, ha ammesso il CIO di UBS WM, Mark Haefele, durante una tavola rotonda virtuale con la stampa internazionale, a cui ha partecipato anche We Wealth. Ma se l’orso dovesse arrivare, “non sarà per una rottura dell’alleanza con l’Europa”, già messa alla prova in passato ma sempre rimasta in piedi. “Allo stesso modo, il dollaro resta privo di un’alternativa credibile come valuta di riserva. Ci potrà essere un aggiustamento, ma non un crollo”, ha detto Haefele, nonostante il calo marcato del biglietto verde da inizio anno (–8,25% al 7 maggio).
Un esito più razionale nelle trattative sui dazi appare possibile anche per ragioni pragmatiche: “L’amministrazione Trump dovrà infatti pensare alle elezioni del 2026. I parlamentari repubblicani nei distretti in bilico potrebbero iniziare a prendere le distanze se il danno economico diventasse troppo visibile. E con una Camera così divisa, la minaccia di impeachment potrebbe pesare”.
Per Nadia Lovell, capo stratega azionaria per gli Stati Uniti di UBS WM, “c’è un interesse concreto a non far deragliare l’economia prima delle elezioni”. “Abbiamo già visto una ripresa dai minimi recenti dell’S&P 500. Anche se nulla si può escludere, riteniamo bassa la probabilità che si torni su quei livelli”.
Oro o valute rifugio?
Chi cerca di dormire sonni più tranquilli farà meglio a guardare all’oro, piuttosto che al franco svizzero o allo yen giapponese – rifugi classici, sì, ma spesso utilizzati in modo tattico dagli investitori istituzionali. Per UBS WM, il prezzo obiettivo dell’oro è 3.500 dollari l’oncia (soglia oltre la quale potrebbe essere prudente alleggerire la posizione). Al 7 maggio, l’oro quotava 3.393 dollari l’oncia: c’è ancora margine di salita, ma dipenderà dalla portata e dalla durata delle nuove barriere commerciali decise dagli Stati Uniti.
“È ancora considerato un hedge molto efficace”, spiega Dominic Schnider, Global Head FX & Commodities di UBS WM, “ma bisogna anche riconoscere che ha un limite: se la situazione si stabilizza e l’incertezza politica si riduce, la corsa all’oro potrebbe rallentare”. Il metallo giallo ha però un vantaggio unico: non esiste una banca centrale che possa “tagliare il tasso dell’oro”, quindi non è soggetto a politiche monetarie. Questo lo rende “più stabile delle valute in tempi turbolenti”.
Un vantaggio che franco svizzero e yen non hanno: la Banca nazionale svizzera, ad esempio, potrebbe intervenire per frenare l’eccessiva forza del franco, mentre “lo yen ha già registrato un’alta concentrazione di posizioni long speculative, lasciando poco margine per ulteriori apprezzamenti nel breve”.
L’incertezza, tuttavia, sembra destinata a rafforzare in modo strutturale la domanda di asset rifugio, in particolare da parte degli investitori istituzionali che cercano coperture più stabili.
Cosa faranno le banche centrali?
Secondo Paul Donovan, capo economista di UBS WM, sarà più semplice per la Banca d’Inghilterra e per la BCE orientare la politica monetaria nei prossimi mesi rispetto alla Federal Reserve. L’impatto dei dazi americani sull’Europa sarà infatti disinflattivo, a causa di un calo delle esportazioni verso gli USA. Uno scenario che rende più agevoli i tagli dei tassi, senza troppe complicazioni.
Per la Fed, invece, la situazione è più intricata. Un aspetto cruciale è che la percezione dell’inflazione da parte dei consumatori americani potrebbe superare quella reale. Ad esempio, l’introduzione dei dazi su piattaforme e-commerce come Temu farà aumentare i prezzi per i consumatori, ma questi prodotti non sono inclusi nei panieri statistici dell’inflazione ufficiale.
“Se i consumatori credono che i prezzi aumenteranno a causa dei dazi”, avverte Donovan, “i venditori al dettaglio potrebbero anticipare i rincari, sfruttando la narrativa per espandere i margini di profitto”. È la cosiddetta inflazione da profitti (profit-led inflation). Se questa dinamica si autoalimenta e influenza le aspettative di famiglie e imprese, si entra in una spirale inflattiva di secondo livello. A quel punto, anche se l’inflazione ufficiale non è ancora scesa sotto il 2%, la Fed potrebbe decidere comunque di tagliare i tassi, per proteggere la crescita.
Per Donovan, questa prudenza prevarrà. E un intervento della Fed appare sempre più probabile.
Quale azionario Usa può tornare a brillare
In uno scenario di tagli dei tassi da parte della Fed, i segmenti del mercato USA più sensibili al costo del denaro sarebbero ben posizionati per beneficiare. Tra questi spicca la tecnologia.
“Continuiamo a favorire il settore tecnologico, che riteniamo attraente”, afferma Nadia Lovell. “Durante la stagione degli utili, le aziende più esposte all’intelligenza artificiale hanno mostrato risultati molto solidi”.
Più in generale, Lovell segnala che si è già verificata “una correzione significativa in alcuni temi secolari – non solo il tech, ma anche energia e longevità – che ora tornano a essere interessanti”.
La conclusione è cautamente ottimista: “Riteniamo che il mercato possa salire ancora, anche se non escludiamo una breve pausa dopo il rally. Perché si apra un nuovo slancio al rialzo, serve però una svolta positiva sul fronte tariffario“.