Doveva essere il ritorno a un’agenda economica “America First”, ma i primi cento giorni del secondo mandato di Donald Trump si sono rivelati molto più di un semplice revival politico. In meno di tre mesi, la nuova amministrazione ha riattivato una strategia aggressiva che ha profondamente ridisegnato gli equilibri globali: dalla svalutazione del dollaro alla messa in discussione dell’indipendenza della Federal Reserve, fino al rilancio delle tensioni commerciali e geopolitiche con Cina, Russia e Iran. Secondo Kevin Thozet, Portfolio Advisor e Membro del comitato di Investimento di Carmignac, questi non sono episodi isolati, ma segnali convergenti di una mutazione strutturale in cui l’incertezza non è più una fase transitoria, ma un elemento strutturale del contesto operativo.
Il secondo mandato come fattore di discontinuità sistemica
Il 30 aprile 2025 ha segnato il traguardo simbolico dei primi cento giorni di governo della seconda presidenza di Donald Trump, i cui principali provvedimenti hanno già prodotto effetti dirompenti sull’ordine geopolitico e finanziario.
“Il nuovo corso americano – spiega Thozet – ha messo in discussione il commercio internazionale, alterato le aspettative sulla politica fiscale e monetaria e ridisegnato il ruolo del potere esecutivo nella gestione macroeconomica. Non si tratta solo di un cambiamento di rotta: l’attuale amministrazione spinge deliberatamente oltre i confini istituzionali, generando un effetto domino che colpisce il cuore dell’ordine monetario internazionale. La centralità del dollaro come bene rifugio e valuta di riserva viene oggi rimessa in discussione non da fattori esogeni, ma da decisioni endogene della leadership statunitense”.
Commercio internazionale: fine della tregua, logiche di potenza
Anche il ritorno alle politiche protezionistiche, pilastro della campagna elettorale di Trump, non si sono rivelate semplici leve negoziali, ma una dimensione strutturale della strategia trumpiana.
“L’attuale sospensione di 90 giorni nei rapporti con i partner commerciali non è un passo verso la de-escalation, ma un intervallo tattico in vista di nuove imposizioni o, alternativamente, di compromessi di facciata. Trump potrebbe accontentarsi di generici impegni d’acquisto da parte di Paesi terzi su energia, cereali o armamenti, ma anche questa soluzione non eliminerebbe il vero danno: l’incertezza sistemica che colpisce gli investimenti aziendali e la fiducia dei consumatori”.
Il mondo, nel frattempo, non è rimasto a guardare. La Cina, fulcro della strategia commerciale americana, cominciato ad articolare una risposta multilivello. Forte della sua esposizione al debito sovrano USA e del controllo su catene di fornitura strategiche, Pechino ha margini di manovra importanti.
“Tuttavia – avverte Thozet – la componente politica complica ogni trattativa. L’umiliazione diplomatica inflitta da Trump e dal vicepresidente J. D. Vance rende difficile, per la leadership cinese, accettare compromessi senza perdere prestigio interno. Inoltre, anche un accordo simile a quello di “Fase Uno” non sarebbe sufficiente a correggere gli squilibri strutturali legati al vantaggio competitivo cinese, fondato su sussidi di Stato e condizioni di concorrenza asimmetriche. A ciò si aggiunge la volontà esplicita della Casa Bianca di colpire l’asse strategico sino-russo-iraniano, trasformando la guerra commerciale in un conflitto ibrido, dove si mescolano economia, sicurezza e proiezione di potere”.
Il dollaro in ritirata: sintomi di una crisi d’ordine
Una delle principali conseguenze della rivoluzione trumpiana è stato il colpo subito dal biglietto verde. Dall’inizio del 2025, infatti, il dollaro ha perso circa il 10% del suo valore, ma nonostante ciò continua a risultare sopravvalutato di oltre il 10% secondo i modelli di Carmignac basati su fondamentali e flussi.
“Non si tratta di una normale correzione valutaria – osserva Thozet – e il comportamento recente dei mercati indica al contrario una fuga silenziosa di capitali domestici e internazionali che risponde a due fattori principali: il timore di una stagflazione duratura e la crescente sfiducia nella tenuta dell’ordine monetario mondiale centrato sugli Stati Uniti”.
L’elemento più destabilizzante, precisa però l’esperto di Carmignac, è il costante attacco all’indipendenza della Federal Reserve e della magistratura da parte del presidente, che prefigura una crisi costituzionale latente.
“Se questo processo dovesse intensificarsi, è plausibile che la fuga silenziosa si trasformi in una vera e propria corsa contro il dollaro. Le implicazioni per gli investitori sono enormi. Una nuova fase di de-rating potrebbe colpire le valutazioni relative dell’azionario USA, riportando in auge lo smile of the dollar: un fenomeno in cui la valuta si rafforza quando peggiorano le condizioni macroeconomiche globali. Ma perché ciò avvenga sarà necessario un deterioramento ben più severo rispetto al passato”.
La Fed bloccata: attesa, stallo e frizione interna
Per quanto concerne l’economia a stelle e strisce, il primo trimestre ha visto un’accelerazione degli ordini da parte delle imprese importatrici, segnale che riflette non tanto un’espansione reale quanto un comportamento difensivo in previsione di nuovi dazi.
“Questo ha distorto temporaneamente i dati – osserva Thozet – ma ha anche generato un contraccolpo sulla fiducia che ora si riverbera sulle prospettive del secondo trimestre. Il rischio è la stagnazione. Durante il primo mandato di Trump, l’incremento della tariffa media effettiva dal 1,5% al 2,5% aveva quasi innescato una recessione. Oggi, un dazio generalizzato del 10% – anche se parzialmente negoziato – avrebbe un impatto stimato dello 0,7% sul PIL statunitense. Uno shock stagflazionistico per gli USA sarebbe accompagnato, in parallelo, da uno shock deflazionistico per l’economia globale”.
In questo contesto la Federal Reserve si trova stretta tra due esigenze opposte. “Da un lato, la solidità del mercato del lavoro fornisce una giustificazione tecnica per restare. Dall’altro, i mercati prezzano già quattro tagli dei tassi entro la fine dell’anno, ipotesi eccessivamente ottimistica. Riteniamo più plausibile, secondo l’analisi, che il primo intervento arrivi non prima di luglio. La Fed rischia così di restare paralizzata, schiacciata tra pressioni politiche, aspettative di mercato e indicatori macro contraddittori”.
Un consenso in calo, ma danni già compiuti
A completare il quadro c’è la debolezza del capitale politico di Trump. I suoi livelli di approvazione sono i più bassi mai registrati per un presidente USA a questo punto del mandato dalla fine della Seconda guerra mondiale.
“Questo – aggiunge in ultima analisi Thozet – potrebbe rappresentare un freno all’attuazione delle politiche più radicali, specie se i mercati finanziari decidessero di rispondere con una reazione netta. Tuttavia, molti degli effetti potenzialmente distruttivi dei primi cento giorni appaiono già consolidati. La sfiducia nelle istituzioni, la fragilità del dollaro, la tensione latente con la Cina e il rischio di una nuova impasse della Fed sono elementi che non si riassorbiranno facilmente”.
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