Nelle ultime settimane si è spesso sentito parlare di una spaccatura, una divergenza tra la Banca centrale europea, che continua e continuerà a tagliare i tassi di interesse, e la Federal Reserve, che invece si è messa in pausa, decidendo di mantenere una politica più restrittiva. Questo è vero, ma forse c’è anche un’altra profonda spaccatura a cui gli Stati Uniti stanno andando incontro, quella tra la Fed, nelle sapienti mani di Jerome Powell, e il governo centrale, guidato da Donald J. Trump.
Infatti, mentre l’inflazione Usa è salita al 3% a gennaio, rispetto al 2,9% atteso dagli analisti e registrato a dicembre e il dato core, al netto di energia e cibo, è aumentato al 3,3%, rispetto al 3,1% previsto dal mercato, Powell ha ribadito che la banca centrale non ha fretta di ridurre i tassi. Dall’altra parte, però, Trump insiste: i tassi devono scendere, spingendo per una politica monetaria più accomodante.
Fed in pausa: nessuna novità all’orizzonte
A gennaio la Federal Reserve si è riunita per la prima volta nel 2025, mantenendo i tassi invariati. Da un lato i dati sulla crescita e sull’occupazione rimangono robusti, dall’altro però il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha costretto a ripensare all’impatto delle sue politiche economiche sul costo del denaro. Più precisamente, l’idea è che possano innescare un aumento dell’inflazione, costringendo la Banca centrale statunitense a mantenere un atteggiamento prudente sui prossimi tagli. “Già in sé questo basta per chiederci se la decisione di non abbassare il tasso di riferimento per la prima volta in quattro riunioni sia un rinvio, con la possibilità che i tagli prima o poi riprenderanno, o una pausa, scenario che non esclude l’ipotesi che questo ciclo di allentamento sia arrivato a conclusione”, suggerisce Daniel Siluk, Head of Global Short Duration & Liquidity di Janus Henderson Investors.
Trump: minacce anche per l’economia statunitense?
Al momento, la Fed prevede uno o al massimo due tagli dei tassi di interesse entro fine anno. Tuttavia, se Trump dovesse mantenere le promesse della campagna elettorale sulle politiche migratorie, una parte significativa della forza lavoro statunitense potrebbe ridursi, causerebbe carenze di manodopera, specialmente nei settori dell’agricoltura e delle costruzioni. Questo scenario porterebbe a un aumento dei salari e dell’inflazione. In un contesto simile, la Fed si troverebbe a combattere un’inflazione persistente, ribaltando le aspettative di mercato. Uno scenario estremo, ma non così impossibile, che avrebbe un impatto diretto molto importante anche sulla Bce.
Che sia chiaro, non si tratta di una notività: ogni volta che entra alla Casa Bianca una nuova amministrazione la fed deve sempre valutare I potenziali cambi di politica e gli effetti sul mercato, ma proprio per questo sottovalutare l’impatto della Trumpflation potrebbe essere un errore.
Investire, scendendo a patti con l’incertezza
Le politiche di Trump non potranno che avere un impatto anche sul mercato interno: “Gli aspetti decisamente inflazionistici – con un potenziale stimolo economico limitato – non farebbero altro che iniettare ulteriore volatilità nelle prospettive dei tassi e dei mercati obbligazionari”, spiega l’esperto. Va detto però che i mercati hanno già reagito, con la correzione dei Treasury verso fine anno innescata dalla possibile vittoria di Trump, nonostante il consensus si aspettasse l’avvio di un ciclo di tagli dei tassi. Questo però non significa che l’incertezza che circonda le politiche commerciali dell’amministrazione Trump e la sua agenda economica non avranno comunque un effetto visibile.
In un simile scenario, emergono molte opportunità per gli investitori più agili, capaci di muoversi in fretta monitorando tutti gli sviluppi. Sotto la loro lente di ingrandimento dovrebbe essere la riunione di marzo della Fed, che fornirà una sintesi aggiornata delle proiezioni economiche, nella speranza di avere più visibilità sull’agenda economica di Trump.