Afghanistan, Iraq, Libia, sono tre fallimenti della politica estera e militare americana e occidentale. Almeno così leggiamo queste imprese disastrose costate milioni di vite umane e miliardi di dollari. Eppure forse questa chiave di lettura non comprende la strategia del caos, che in questi decenni ha animato diverse amministrazioni americane, repubblicane e democratiche.
La guerra in Afghanistan era persa in partenza, sostiene per esempio il saggista indiano Pankaj Mishra. Gli Stati Uniti e i loro alleati dovevano rispondere con la forza a un regime che aveva direttamente o indirettamente permesso gli attentati dell’11 settembre 2001. Ma un’operazione d’intelligence militare condotta contro Al Qaida e i responsabili degli attacchi alle torri gemelle e i loro complici sarebbe servita a fare giustizia e a vendicare meglio di un’invasione. Invece l’amministrazione Bush scelse una colossale ristrutturazione militare e politica del paese, che poi replicò tragicamente in Iraq nel 2003. Ma lì con una aggravante ancora maggiore: Saddam Hussein, come sostenevano Bush e Blair, mentendo, non possedeva armi di distruzione di massa. Il ragionamento di Pankaj Mihsra non fa una grinza ma ignora le reali conseguenze dell’attuale ritiro americano.
A chi giova il prevedibile caos in Afghanistan? Certamente non agli afghani e neppure all’Iran dove si è insediato alla presidenza l’ultraconservatore Ebrahim Raissi in trattativa con gli Usa sulle sanzioni, alla guida di un Paese, stritolato dall’embargo e dalla pandemia, che è sempre stato un avversario dei talebani. Gli iraniani, prima del ritiro americano, potevano accettare, o persino favorire, che i talebani destabilizzassero Kabul ma non possono tollerare che tornino adesso al potere. Anche se una loro delegazione è stata ricevuta a Teheran – così come a Mosca e Pechino – tutti ricordano che nel ’98 massacrarono 11 diplomatici iraniani a Mazar el Sharif e che ora fanno la stessa cosa con la popolazione sciita afghana e gli hazara. In Afghanistan
si profila il rischio di una sanguinosa guerra civile che può trasformarsi in un altro conflitto sciita-sunnita, così come è stato in Iraq prima con Al Qaida e poi con l’ascesa del Califfato. La guerra Usa-Israele-Iran continua con ogni mezzo, dalle provocazioni di Teheran agli attentati agli scienziati iraniani, ai raid aerei americani e israeliani in Siria e in Iraq contro le milizie filo-sciite e i pasdaran: se ne parla poco se non quando esplodono le tensioni nel Golfo del petrolio. L’Iran si troverà presto sotto pressione su tre fronti, nel Golfo, a est e a ovest e l’Afghanistan è uno di questi fronti.
Tutto questo avviene per una precisa scelta americana: creare il caos e sfruttarlo a proprio vantaggio e degli alleati di Washington, da Israele alle monarchie del Golfo che fanno parte o ruotano intorno al Patto di Abramo voluto da Trump. È questa la “strategia del caos” attuata, dall’Afghanistan alla Libia, da diverse amministrazioni repubblicane ma anche democratiche, compresa quella di Obama di cui era vicepresidente Biden. Si tratta in sostanza di risparmiare sulla presenza militare diretta, come è stato in Afghanistan o Iraq, e di lasciare ardere focolai di guerra o di resistenza: sono le cosiddette guerre per procura, fatte con le vite degli altri. L’Iraq è stato questo, così come la Siria, la Libia e adesso il nuovo capitolo del conflitto in Afghanistan. È un tipo contraddittorio Biden. Anche in Iraq si sta ritirando lasciando la presenza militare soprattutto a una missione Nato che andrà sotto il comando dell’Italia. Insomma gli Usa creano i guai, come accadde con la guerra del 2003 contro Saddam, e noi ne paghiamo per decenni le conseguenze, esattamente come è avvenuto in Libia nel 2011 quando insieme a francesi e inglesi attaccarono Gheddafi.
Qualcuno si ricorderà della reazione del segretario di stato Hillary Clinton al linciaggio e all’assassinio di Gheddafi, frase ricordata da Diana Johnstone nella sua biografia opportunamente intitolata “Hillary Clinton regina del caos”: “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto”, un motto che pronunciò seguito da una gran risata. Tony Blinken, l’attuale segretario di Stato Usa, era allora il più entusiasta sostenitore dell’attacco in Libia. Il caos libico lo abbiamo pagato noi, soprattutto l’Italia. È da notare che nel 2019, quando Khalifa Haftar assediava Tripoli e il governo Sarraj – legittimamente riconosciuto dall’Onu – gli Usa si sono astenuti dal bombardare il generale della Cirenaica, lasciando che poi fosse Erdogan, per altro membro della Nato, a occupare la Tripolitania, con tutti i danni che ne sono venuti all’Italia. Perché gli Usa non hanno fatto nulla? Semplice, perché il generale Haftar è sostenuto da Egitto ed Emirati, due Paese clienti di armi Usa, con in più gli Emirati entrati nel famoso patto di Abramo con Israele. Il caos serve anche a ridistribuire le carte e i pesi contrapposti tra le potenze alleate e concorrenti tra loro. Quelli che ci appaiono dei fallimenti (in gran parte è così) – come l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia o la Siria – non lo sono del tutto se si applica la strategia americana del caos. C’è sempre una Clinton o un suo erede pronto a farsi quattro squallide risate.
(Articolo tratto dal magazine We Wealth di settembre 2021)
Afghanistan, Iraq, Libia, sono tre fallimenti della politica estera e militare americana e occidentale. Almeno così leggiamo queste imprese disastrose costate milioni di vite umane e miliardi di dollari. Eppure forse questa chiave di lettura non comprende la strategia del caos, che in questi decenni…