Nonostante la normativa italiana in materia di società innovative sia relativamente recente, l’essenza del concetto di startup “innovativa” è difficilmente incastonabile in una specifica definizione normativa.
La normativa sulle startup innovative ha conosciuto un’evoluzione che poche volte si è realizzata in così poco tempo in Italia: il legislatore, trovatosi ad affrontare le esigenze del mercato e i costanti interventi (anche normativi) a livello comunitario, ha novellato nel tempo la normativa originaria.
LE OPPORTUNITÀ PER TE.
Quali sono i vantaggi (anche fiscali) delle startup innovative?
Come ottenere i finanziamenti?
Gli advisor selezionati da We Wealth possono aiutarti a trovare le risposte che cerchi.
RICHIEDI LA TUA CONSULENZA GRATUITA
Evoluzione della normativa italiana sulle startup
Ad esempio, se una prima versione della norma del 2013 prescriveva che le startup innovative dovevano essere detenute a maggioranza da persone fisiche, pena la decadenza dei benefici e il ritorno al regime ordinario proprio, in una successiva rivisitazione della definizione il legislatore ravvisò l’esigenza di eliminare tale requisito.
Tale correttivo avvicina il modello italiano a un modello molto più simile a quello d’oltreoceano che non impone ex lege la qualifica di startup innovativa a una particolare rappresentazione dei soci in cap-table, ma al prodotto o servizio innovativo in fase di sviluppo (quindi all’essenza stessa del concetto di innovazione).
Aggiungiamo anche che l’eliminazione di questo floor normativo ha altresì il pregio inserire la traiettoria delle valutazioni delle startup in un’ottica più di mercato dove il principale motore non è la maggioranza del capitale sociale (o dei diritti di voto) ma la valutazione del business e le sue prospettive di crescita. In tale novellato contesto è quindi lasciato molto di più all’autonomia privata la valutazione economica del business, da cui necessariamente ne discende una differente rappresentazione della cap-table in ragione dell’ammontare dell’investimento, piuttosto che avere un floor normativo a “tutela” dei founder (che non faceva altro, fra l’altro, che allontanare investitori).
In altri termini, più la società sviluppa un business innovativo e ricercato dagli investitori maggiori saranno le valutazioni e, quindi, i founder potranno diluirsi in modo meno celere. Tutto ciò ha, quindi, una logica che premia il caso specifico senza necessità di avere “paracadute” legali.
Italia vs altri Paesi: giurisdizioni a confronto
La logica appena accennata è, peraltro, in linea il modello americano dove il carattere attorno a cui ruota industria del venture capital non è la formalità normativa (praticamente assente in Usa), bensì l’innovatività , la valorizzazione di un nuovo business “scalabile e ripetibile”.
Seppur in Italia, ma in tutta l’Europa Continentale, si assista (e in molti settori non solo nel venture capital) a un approccio allo sviluppo economico dettato da regole che creano il mercato, e se possiamo anche dire che questo approccio in molti settori non ha prodotto gli effetti sperati, dobbiamo tuttavia riconoscere che la spinta del legislatore nello specifico settore che ci riguarda ha innescato e accelerato un movimento culturale, economico-finanziario e legale che non ha avuto eguali in Italia, quanto meno in un periodo di tempo così limitato.
In questo momento anche l’Italia – seppur sempre fanalino di coda rispetto ai partner europei – ha un mercato del venture capital, startup che attraggono fondi (finalmente anche internazionali) e una crescente industria dei venture capitalist. La domanda che dovremmo iniziare a porci guardando all’esperienza di questo primo decennio riguarda l’attuale struttura normativa sia ancora adeguata per continuar a far sviluppare e fiorire questo mercato.
La necessità di un intervento legislativo più aggressivo sulle startup
Personalmente, credo che un intervento legislativo più aggressivo, a questo stadio di maturazione del mercato, sia auspicabile. È infatti innegabile che il registro delle startup innovative sia affollato da società che non scalano, che raccolgono poco o nulla e i cui modelli di business sono lontani dal concetto stesso di “innovatività”. Ora, dopo aver creato “la base” è forse è giunto il momento di stringere i cordoni e puntare sulla selezione. Selezione che, a mio personale avviso, dovrebbe portare all’esclusione di ciò che effettivamente non è innovativo.
È, quindi, giunto il momento, anche a livello normativo, di entrare nel merito di ciò che è “innovativo” e di ciò che, invece, è un servizio magari già presente sul mercato, ma unicamente offerto con metodi “para-innovativi”, nonché di utilizzare – sempre ai medesimi fini – l’effettiva capacità di attrazione di investimenti, con una certa costanza e volume sempre maggiore.
Si avrà, molto probabilmente, un dimagrimento del numero di startup iscritte nel registro a esse dedicate, ma questo non è un male se ciò che rimane è effettivamente innovativo e attrae finanza per la crescita in modo costante nel tempo e con volumi di investimento sempre maggiore.
In questo modo, il legislatore uscirebbe da una logica massima dove l’ingente numero di società iscritte al registro delle startup innovative è motivo di vanto nazionale (ma in realtà è solo uno sterile numero fra i tanti), ma punterebbe sulla qualità del mercato italiano facendo un ulteriore passo di allineamento a quel concetto di innovatività e valorizzazione della crescita (economica e anche finanziaria) statunitense che si è poc’anzi accennato.