- Circa il 28% della capitalizzazione di mercato dell’S&P 500 è rappresentato dalle magnifiche 7, ovvero una concentrazione superiore ai livelli registrati durante la bolla delle dot-com
- Tousley (Goldman sachs asset management): “A nostro avviso, la sola concentrazione non giustifica il disivestimento dai grandi nomi del tech”
Nvidia, Meta, Apple, Amazon, Microsoft, Alphabet e Tesla, le cosiddette “magnifiche sette” di Wall Street, hanno catturato l’attenzione degli investitori negli ultimi anni, sollevando al contempo timori sul rischio di una sovraesposizione nel caso di un ribasso del tech. Circa il 28% della capitalizzazione di mercato dell’S&P 500 è rappresentato infatti dai sette colossi, superando i livelli di concentrazione persino della bolla delle dot-com di fine anni ’90. È il momento di disinvestire? Non necessariamente secondo John Tousley, global head of market strategy, strategic advisory solutions di Goldman Sachs asset management.
“L’attuale concentrazione del mercato non è determinata dalla stessa natura speculativa di quella registrata durante la bolla delle dot-com”, osserva Tousley. “Gli investitori prudenti dovrebbero prendere in considerazione delle soluzioni per mantenere un portafoglio diversificato al fine di ridurre il rischio idiosincratico e puntare sulla qualità all’interno del portafoglio. Le esposizioni alle large cap statunitensi possono essere diversificate con settori e aree geografiche complementari, nonché con opportunità differenziate nei mercati privati”, suggerisce infatti l’esperto. I fattori che determinano l’attuale concentrazione di mercato non hanno nulla a che vedere a quanto accaduto durante la recessione dei primi anni ’80 o durante la bolla tecnologica. “Riteniamo che attualmente le pressioni inflazionistiche più forti, i tassi d’interesse più elevati, l’aumento del costo del capitale e l’incertezza delle condizioni economiche e geopolitiche abbiano permesso ai business model più solidi dell’indice di dimostrare la resistenza dei loro margini, attirando i flussi di investitori e spingendo al rialzo la loro capitalizzazione di mercato”, aggiunge Tousley.
Cos’è successo negli anni ’70 e 80’: il caso Ibm
Pensiamo innanzitutto agli anni ’70 e ’80, quando Ibm dominava l’indice a stelle e strisce rappresentando circa il 6,4% della sua capitalizzazione di mercato. L’S&P 500 ha incassato alcune correzioni di mercato all’inizio degli anni ’80, dovute principalmente a “shock di crescita” e “impulsi recessivi dovuti all’aumento dei tassi di interesse”, ricorda l’esperto. Il prodotto interno lordo, parallelamente, ha viaggiato in territorio negativo per diversi mesi. In altre parole, sebbene la concentrazione del mercato possa aver influito in parte, a condizionare maggiormente non solo il sentiment degli investitori ma anche la performance dei titoli furono condizioni economiche esterne ai listini.
Magnifiche 7: un confronto con la bolla delle dot-com
Storia diversa quella della bolla delle dot-com, guidata all’epoca dalla speculazione e dall’entusiasmo per internet e dalla successiva incapacità di fornire modelli di business sostenibili e crescita degli utili. Quello che risulta evidente dall’analisi della banca d’affari, tuttavia, è che la maggior parte delle “magnifiche sette” di quel periodo non presenta le caratteristiche speculative delle società che hanno causato lo scoppio della bolla delle dot-com (General Electric, Exxon Mobil, Pfizer, Cisco, Citigroup, Walmart e Microsoft). Emergono tra l’altro due aspetti interessanti:
- i margini di profitto dell’S&P 500 sono quasi raddoppiati negli ultimi 40 anni;
- i rendimenti dell’S&P 500 tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 erano maggiormente ponderati su una gamma più ampia di società, in particolare su quelle sostenute da fondamentali più deboli.
“Nell’attuale contesto di maggiore attenzione alla redditività e ai margini, le società in grado di garantire questi risultati sono state quelle più premiate, a scapito delle altre”, spiega Tousley. La continuità della performance delle Magnifiche 7 dipenderà dalla loro capacità di ottenere costantemente utili e crescita sostenuti”.
Perché investire sui “campioni” d’Europa (e non solo)
Fatte queste premesse, Tousley ricorda come buone opportunità di investimento esistano anche al di fuori degli Stati Uniti. È il caso per esempio delle “magnifiche undici” europee, anche note come “granolas”: 11 società, identificate per la prima volta da Goldman Sachs nel 2020, che nell’ultimo anno hanno trainato il 50% dei guadagni dell’indice Stoxx Europe 600 e che rappresentano circa un quarto della sua capitalizzazione di mercato. Si tratta di Gsk e Roche, dell’olandese Asml, le svizzere Nestlé e Novartis, la danese Novo Nordisk, le francesi L’Oréal e Lvmh, la britannica AstraZeneca, la tedesca Sap e infine Sanofi. “Pur offrendo la stessa performance delle magnifiche 7 dal 2021, le granolas lo hanno fatto con circa la metà della volatilità e due terzi della valutazione”, dice Tousley. “Ma esistono società eccellenti come le granolas in molti altri mercati sviluppati ed emergenti, come il Giappone e l’India”.
In definitiva, afferma Tousley, l’attuale concentrazione nel mercato statunitense non indica un calo imminente, ma piuttosto mette in evidenza le società che hanno mostrato bilanci solidi e che si posizionano in prima linea per la crescita del settore tech. “Invece di uscire dalle società e dagli indici forti, cerchiamo di incrementare la diversificazione del portafoglio all’interno di altre aree di mercato poco considerate, sostenute da fondamentali altrettanto solidi”, conclude. “Nell’attuale contesto, riteniamo che includere il private equity in un portafoglio possa contribuire a diversificare l’esposizione in base alle dimensioni della società, alla composizione del settore e allo stato di sviluppo dell’azienda”.