L’inflazione americana è tornata a crescere a dicembre, rinnovando il dibattito fra gli analisti su quanto possano essere realistiche le attese degli investitori sui tagli dei tassi d’interesse nel corso del 2024.
L’indice Cpi generale è cresciuto a un tasso mensile dello 0,3% portandosi a un dato annuo al 3,4%, superando rispettivamente di uno e due decimali le previsioni del consenso degli economisti sondati da Dow Jones. Il dato di fondo, che esclude le componenti più volatili del paniere come alimenti ed energia, è aumentato dello 0,3% su base mensile, ma è rallentato da un tasso annuo del 4 al 3,9% (ma risultando, comunque, superiore alle attese degli analisti, a 3,8%). I rincari dei costi abitativi, in aumento dello 0,5% su base mensile, sono stati i principali responsabili nell’aumento dell’inflazione di fondo.
Dopo quasi due ore e mezza di contrattazioni i principali indici di Wall Street si sono mossi sempre più in territorio negativo con un calo vicino all’1% per il Nasdaq Composite, mentre l’S&P 500 cedeva lo 0,87%.
Reagendo alla prospettiva di un taglio dei tassi Fed più in là nel tempo l’euro ha ceduto lo 0,17%, portandosi a un minimo di giornata a 1,0931. Anche l’oro, che tende a performare bene quando i tassi scendono, ha reagito alla notizia con un calo dello 0,44% a 2.018 dollari l’oncia.
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Perché l’inflazione americana conta per i mercati
Gli investitori, secondo le posizioni implicite nel mercato dei future, stanno prezzando fra i cinque e i sei tagli dei tassi d’interesse Fed quest’anno. Si tratta di una previsione superiore rispetto alle proiezioni diffuse a dicembre dalla stessa banca centrale americana, che ne prevede tre. Di conseguenza, per rendere realistico lo scenario di un massiccio taglio dei tassi è necessario che il calo dell’inflazione americana, prosegua senza troppe sorprese.
La Federal Reserve si riunirà i prossimi 30-31 gennaio, riunione nella quale non si prevede alcuna modifica ai tassi. Prima del nuovo meeting la Fed avrà modo di consultare l’andamento dell’inflazione Pce aggiornata, l’indicatore più utilizzato dalla banca centrale per determinare le sue decisioni di politica monetaria. Considerando il deciso calo dell’inflazione osservato nella maggior parte del 2023 l’ipotesi di fondo di un calo nella direzione dell’obiettivo al 2% resta quella più diffusa fra gli analisti. La Fed, nelle sue ultime proiezioni prevede che l’inflazione chiuderà il 2024 al 2,4%.
“Il dato odierno sull’inflazione conferma sempre di più che le prospettive di un primo taglio dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve a marzo sono troppo ottimistiche”, hanno dichiarato gli analisti di Ebury, riferendosi alle attuali attese degli investitori, “nonostante il calo dei costi energetici, a dicembre i prezzi al consumo sono aumentati più degli ultimi tre mesi a causa della persistenza al rialzo dei prezzi dei beni di prima necessità e dei trasporti”.
“Mentre l’inflazione core, che esclude le componenti variabili come i generi alimentari e l’energia, continua ad attenuarsi rispetto ai suoi massimi, anche la tendenza al ribasso di questa misura sembra essersi fermata”, hanno proseguito da Ebury, “ciò sarà motivo di preoccupazione per i funzionari del Fomc, soprattutto in un momento in cui il mercato del lavoro statunitense rimane vicino alla piena occupazione e ha mostrato solo modesti segni di raffreddamento”.
Secondo Morgane Delle Donne, Head of Investment Strategy Europa di Global X, “la discrepanza tra la Fed e i mercati sulle prospettive dei tassi potrebbe persistere per tutto il primo trimestre dell’anno, in quanto entrambi devono veder confermate dai dati le loro opinioni. Nel frattempo, le prospettive di tassi d’interesse più bassi e di un dollaro americano più debole pongono le basi per un soft landing a livello globale nel 2024, lasciando alle azioni statunitensi un potenziale di rialzo maggiore rispetto alle controparti europee.