Quartz, magazine di informazione economica politica, ha fatto un’analisi circa la possibilità che venga utilizzata energia pulita nel processo di minino del Bitcoin
Nel 2019 su 280 società di Bitcoin, il 39% ha riferito che la propria attività mineraria era alimentata da energia rinnovabile
Il Bitcoin che cerca di diventare verde
L’8 marzo, la seconda persona più ricca della Norvegia, il miliardario dei servizi petroliferi Kjell Inge Røkke, ha lanciato una nuova impresa chiamata Seetee. In una lettera agli azionisti, Røkke ha affermato che l’obiettivo della società è “reindirizzare energia pulita – eolica, solare, idroelettrica – bloccata a causa di una domanda insufficiente a livello locale verso risorse economiche che possono essere utilizzate ovunque”. Il piano, in altre parole, sarebbe quello di collocare i centri minerari di Bitcoin in prossimità di aziende di energia rinnovabile. Una soluzione win-win: i miners produrrebbero Bitcoin con energia a basso costo e a zero emissioni di carbonio; i parchi eolici o solari otterrebbero un cliente molto affidabile. Secondo Alex de Vries, economista esperto di valute digitali e autore dell’articolo di Joule, la proposta di Røkke ha una falla. Nel progetto di Seetee si presume che l’attività di mining possa essere interrotta quando l’energia è necessaria per altri scopi socialmente più vantaggiosi. Ma il mining funziona solo quando viene eseguito 24 ore su 24, 7 giorni su 7, dato che ogni volta che viene prodotta un Bitcoin, la successiva serie di calcoli diventa automaticamente un po’ più difficile da decifrare.
I tentativi green guardano all’idroelettrico
Tuttavia, in alcune parti del mondo il Bitcoin viene utilizzata, almeno parzialmente, energia a zero emissioni di carbonio. In Cina, alcuni miners sfruttano la stagionalità per approvvigionarsi di diverse fonti di energia: idroelettrica a basso costo in estate, carbone in inverno. Il ricorso all’idroelettrico non è solo appannaggio orientale. Anche in Canada e negli Stati Uniti, sponda pacifico, i miners sfruttano l’energia generata dall’acqua. In Russia invece Gazprom, la compagnia statale russa di gas naturale, ha una divisione che vende ai produttori di Bitcoin energia generata dal gas flare, un sottoprodotto di scarto della perforazione e lavorazione di petrolio e gas che altrimenti verrebbe emesso. In un sondaggio condotto da Cambridge nel 2019 su 280 società di Bitcoin, il 39% ha riferito che la propria attività mineraria era alimentata da energia rinnovabile.
Il dilemma energetico/etico della criptovaluta
Dal momento che l’energia pulita necessaria per un mining rispettoso dell’ambiente è ben superiore all’energia pulita in eccesso, anche i sostenitori più convinti del Bitcoin verde si imbattono in un dilemma: la produzione di Bitcoin è davvero il miglior uso del capitale e delle risorse naturali possibile nel contesto di un mondo intero che corre verso la de-carbonizzazione? Secondo De Vries, la risposta è no: si incorrerebbe in una disallocazione di risorse. La soluzione potrebbe essere invece quella di intervenire sul codice, al fine di ottenere una blockchain meno esigente dal punto di vista computazionale. Il problema è che per fare questo ci vorrebbe il consenso unanime di tutta la community di minatori. Un’ipotesi difficile da realizzarsi, in quanto tale modifica potrebbe innescare un crollo nel valore della valuta.
Nel frattempo, le piattaforme di pagamento digitale che accettano la criptovaluta come metodo di pagamento hanno iniziato a valutare la sua incidenza climatica. Un portavoce di PayPal ha affermato che la società sta studiando il problema e “attende con impazienza l’emergere di best practices che aiutino a misurare e esaminare con attenzione queste emissioni”. Il suo concorrente Square ha annunciato a dicembre una “Bitcoin Clean Energy Investment Initiative” da 10 milioni di dollari per supportare le società di Bitcoin dalla mentalità verde.