Il mese di maggio è tradizionalmente riservato alle aste. La mia scrivania è inondata di cataloghi e la mia agenda tempestata da reminder. Improvvisamente, per oltre un mese, il telefono smette di squillare e tutti quanti si attaccano al computer nella speranza – spesso vana – di essere i soli ad aver scovato un’opera interessante in un’asta minore, magari in Svezia oppure in America. Regolarmente le aspettative vengono deluse ed anzi le opere vendute nelle aste minori danno i risultati migliori. È questo il caso, ad esempio, della bella carta di Santomaso del 1962 andata in vendita in America il 21 maggio. Partita da soli 5000 euro, è stata aggiudica a 35.000 dopo una serie di accaniti rilanci. “Avrebbe fatto molto meno in Italia!” – qualcuno ha commentato. “Tutto merito di internet” – si potrebbe aggiungere, che ha globalizzato anche il mercato dell’arte. Siamo tutti alla ricerca di un incontro romantico ed inatteso, ma nel frattempo ignoriamo la ragazza della porta accanto, che a ben guardare è spesso più attraente. È questo uno strano fenomeno, che andrebbe studiato più attentamente, ma che sembra uno degli ingredienti che hanno decretato il successo delle vendite on line da un lato e il declino delle gallerie dall’altro.
Dopo l’abbuffata di New York, dove in pochi giorni sono stati venduti oltre mille lotti per un totale superiore ad un miliardo di dollari, le vendite italiane sono state un salutare ritorno alla normalità, una sorsata d’acqua fresca dopo una serata a base di superalcolici. Per quanto i valori in gioco siano modesti, sono pur sempre un indicatore interessante sullo stato di salute del mercato. Chi ha seguito le aste americane ne ha ricavato impressioni contrastanti. Certo, a scorrere i risultati da un punto di vista squisitamente quantitativo, sembra che tutto vada a gonfie vele. Ma in realtà alcuni osservatori hanno notato le prime nubi profilarsi all’orizzonte dopo anni di cielo sereno: alcuni lotti sono stati ritirati (un eufemismo per invenduti), altri sono stati aggiudicati molto sotto la riserva, altri ancora hanno deluso le aspettative, altri infine erano già garantiti e quindi di fatto già prevenduti. Se così fosse – ma è presto per dirlo- a farne le spese sarà soprattutto l’arte contemporanea. “Colpa dei tassi” – si sente dire – e credo che ci sia una parte di verità. L’arte, come anche l’immobiliare, è stato il luogo ideale dove parcheggiare la liquidità in un momento in cui i rendimenti erano pari a zero e la borsa oscillava paurosamente. Oggi non mancano le alternative e credo che questo possa avere un impatto non trascurabile sul mercato.
La stagione milanese è stata inaugurata dall’asta di Sotheby’s che, con un tempismo persino sospetto, si sovrapponeva al Miart quasi a volerlo sfidare. Come sempre il team guidato da Claudia Dwek aveva allestito un catalogo interessante, con molte opere di qualità. I risultati nel complesso sono stati ottimi, con un fatturato intorno a 15 milioni che ne fanno la migliore asta della stagione, e credo che parte di questo successo dipende dal timing, ovvero dal fatto di essere stata la prima vendita dell’anno.
I nomi che vanno per la maggiore sono sempre gli stessi: Dorazio, Accardi, Boetti, Salvo, Capogrossi, Schifano. Tutto il contrario di quanto succedeva solo qualche anno fa, quando il mercato premiava Bonalumi, Scheggi, Simeti, Dadamaino, e cioè il minimal italiano. Assistiamo quindi a quello che in gergo borsistico si chiama rotazione e che potremmo anche chiamare cambiamento nel gusto. Le preferenze del pubblico vanno verso il colore e la pittura, ma invece che i protagonisti della stagione informale (Vedova, Afro, Tancredi, Afro, Santomaso), ci si indirizza su autori ancora sottovalutati o quantomeno ritenuti tali. Per chi, come il sottoscritto, ha allestito mostre di Schifano e di Accardi solo qualche anno fa, peraltro con scarso successo commerciale, rimane da un lato la soddisfazione di avere precorso i tempi, dall’altro la delusione di non aver più delle opere che oggi sarebbero state vendute a prezzi ben superiori. D’altra parte il ruolo del gallerista, a differenza di quello delle case d’aste, è quello di anticipare le mode, non di assecondarle.
Il Ponte casa d’aste, lotto n° 98, asta 614, Mario Schifano “Senza titolo” 1961, smalto, grafite e collage su carta, 68,5×98,6, cm.
Prendiamo ad esempio Carla Accardi, una delle pochissime artiste italiane in un panorama dominato esclusivamente da uomini. Le opere storiche ormai non si riescono ad acquistare a meno di 200.000 euro per formati contenuti, mentre quelle recenti oscillano intorno ai 100.000, più del doppio di pochi anni fa. L’exploit più significativo è stato però quello di Mario Schifano: nell’asta del Ponte, allestita come al solito con grande sapienza da Freddy Battino, sono stati venduti ben due lavori su carta degli anni sessanta a prezzi davvero significativi, uno ad oltre 300.000 euro e l’altro a quasi 100.000, mentre in quella di Sotheby’s del 25 maggio una palma degli anni 70 ha sfiorato i 100.00 euro, un risultato bel lontano dalla stima compresa fra 30 e 40.000.
Ponte casa d’aste, lotto n° 85, asta 614, Mario Schifano “Cielo per A.” 1964, smalto, grafite, matita e riporto di stampa a trielina su carta intelata dall’artista, 62×89,5 cm.
Il successo di questi artisti è stato determinato, fra l’altro, anche dal rinnovato interesse di importanti gallerie americane per l’arte italiana. Mi riferisco alla grande esposizione allestita presso David Zwirner a New York nel mese di gennaio, dove il focus era proprio sugli artisti romani degli anni sessanta. Credo che ci siano tutti i requisiti perché anche Capogrossi ottenga a breve un giusto riconoscimento non solo dalla critica, ma anche dal mercato. In questa tornata non c’erano opere significative, ma i 208.000 euro del dipinto di Dorotheum, peraltro non eccezionale, lascia a ben sperare per il futuro.
Dorotheum casa d’aste, lotto 272, Arte contemporanea I, 24.05.2023, Giuseppe Capogrossi, “Superficie 375”, 1952–1959, olio su tela, 38 x 55 cm.
Anche uno scultore come Leoncillo, attivo a Roma ma originario dell’Umbria, è oramai pienamente sdoganato dal mercato, mentre fino a qualche anno fa aveva solo un limitato numero di acquirenti. Non voglio essere frainteso: i classici italiani, Fontana e Morandi, continuano ad avere un mercato solido, con prezzi costanti ed anzi in aumento, ma non c’è dubbio che le new entries siano quelle che abbiamo citato, mentre al alcuni big come Burri e Manzoni appaiono un poco appannati. Rimane solo da capire quanto durerà questa tendenza.
Il collezionista avvertito, piuttosto che lasciarsi guidare dal mercato, dovrebbe intuire quali sono gli artisti sottovalutati che ancora meritano una giusta considerazione. Credo che ce ne siano ancora, ma questo è un altro discorso, si cui varrà la pena di tornare in futuro, sempre che ne valga la pena, perché ho spesso osservato come i consigli gratuiti e spassionati siano quelli meno ascoltati.